La medicina di comunità

Il lavoro nel campo della salute dei rifugiati rivela un’evidenza che può sembrare paradossale: curare chi viene da lontano, chi è diverso da noi per lingua, cultura e condizione sociale, ci insegna a lavorare per tutti, ci spinge a trovare strategie, a costruire reti per non lasciare fuori nessuno.
La prima banale riflessione, in quest’anno di parziale uscita dall’emergenza della pandemia, è che la salute è una dimensione pubblica, globale: se troppi ne rimangono esclusi, siamo tutti a rischio. La necessità di vaccinare il maggior numero possibile di persone ha spinto il Sistema Sanitario Nazionale a dotarsi di strutture capaci di accogliere e vaccinare tutti, a prescindere dalla situazione sociale e legale.
Forse, per la prima volta, il diritto universale alla salute sancito dalla nostra Costituzione si è tradotto in uno sforzo concreto dei servizi pubblici. Sono state create strutture capaci di includere anche chi era senza documenti, chi non riusciva a spiegarsi o a comunicare, con gli operatori sanitari impegnati nel superare tutti gli ostacoli, amministrativi e sostanziali, per arrivare alla cura (vaccino).
Con l’invasione russa dell’Ucraina e il conseguente arrivo di profughi, il nostro Paese ha riaperto alcuni hub, dotandoli di mediatori per accogliere, fare un primo screening, vaccinare e orientare chi arrivava per la prima volta nei nostri territori, ancora disorientato e provato dalla fuga dalla guerra.
Adesso con i fondi del PNRR sono annunciate oltre mille Case della Comunità, luoghi di salute pensati come prossimi ai territori, basati sulla presenza di diverse figure professionali per riconfigurare un welfare capace di accogliere e curare tutti secondo un’idea di salute dentro la comunità. In questo senso, ciò che si era pensato come straordinario si sta trasformando in progetti ordinari, strutturali al nostro tempo e alla nostra società.
Ma cosa significa pensare una Casa della Comunità? Come si progetta un luogo dedicato alla salute che sappia riconfigurarla dentro la comunità?
Queste parole, cura, accoglienza, prossimità e comunità, chi lavora con i migranti ha imparato a tenerle insieme da sempre. Perché le domande di cura che i nostri assistiti ci rivolgono sono domande complesse, che entrano ed escono dal campo puramente medico per toccare dimensioni sociali e legali. L’accoglienza e la mediazione non si possono più considerare come elementi accessori alla cura, ma ne divengono una parte costitutiva.
Un recente progetto europeo (ICARE), che ha coinvolto diverse ASL del territorio nazionale, ha dotato molte strutture sanitarie di mediatori linguistico-culturali o ne ha potenziato la presenza dove già c’erano. Quello che abbiamo riscontrato nelle richieste al SaMiFo, da parte di ambulatori e strutture sanitarie del territorio, è che la figura del mediatore a poco a poco è diventata indispensabile per gli stessi medici e operatori sanitari che, fino a poco fa, non sembravano considerarla.
La ASL Roma 1 ha presentato per la prima volta un bando di assunzione di mediatori come figure integrate al sistema sanitario. È un passaggio importante, non solo per la vita e la dignità lavorativa dei mediatori, ma perché si riconosce come strutturale nella nostra società la presenza di migranti e il loro accesso ai servizi pubblici.
Ancora una volta ciò che si voleva considerare come extra-ordinario ha mostrato di essere ordinario, strutturale alla realtà che ci circonda.
Riflettendo sulla medicina di prossimità, o forse sui rapporti tra salute e comunità, occorre parlare anche di salute mentale, della sua organizzazione nel nostro Paese e della situazione dei migranti affetti da disturbi mentali.
In Italia, come è noto, col passaggio dai manicomi ai dipartimenti di Salute Mentale, con la riforma Basaglia del 1978, si è cercato di superare una logica di esclusione e custodia dei malati psichici in favore di una presa in carico integrata nei territori, finalizzata a considerare non solo gli aspetti medico-biologici, ma anche quelli psicologici e sociali.
L’esperienza nella cura dei migranti ci mette però di fronte troppo spesso all’abbandono delle persone con disturbi gravi e alla solitudine degli operatori dei centri di accoglienza di fronte a situazioni ingestibili, a volte anche pericolose.
Sono pochissimi i posti nei centri di accoglienza dedicati a rifugiati con disturbi mentali, sono difficilissimi i ricoveri nei reparti psichiatrici ospedalieri anche per i casi più gravi.
La domanda che paralizza i servizi è sempre la stessa. E dopo? Dove andrà questa persona alla dimissione? Chi la accoglierà? Chi se ne farà carico dopo che il progetto di cura finirà?
Ancora una volta il lavoro con i migranti ci mette di fronte ai limiti reali della nostra società e del nostro welfare.
Qual è il territorio di chi non ha una casa? Qual è la comunità di chi non ha una famiglia?
Per questo la costruzione di Case della Comunità, di strutture di salute di prossimità inserite nei territori, deve innanzitutto partire da una visione reale della comunità e di chi ne fa parte.
Se non vogliamo creare dei contenitori vuoti, o comunque incapaci di includere i più fragili, prima ancora di costruire delle Case della Comunità dovremo immaginare e costruire una nuova comunità o forse dovremo solo accorgerci di chi abita le nostre strade, gli edifici occupati, i dormitori e i centri di accoglienza, per progettare dei servizi territoriali realmente inclusivi. Per non lasciare fuori più nessuno davvero.

MARTINO VOLPATTI
operatore sociale