Al via Puliamo il Mondo per un clima di pace

Il 30 settembre, 1 e 2 ottobre torna “Puliamo il Mondo” (edizione italiana di Clean up the World), la più grande iniziativa di volontariato ambientale promossa da Legambiente e arrivata alla trentesima edizione.

Quaranta le associazioni aderenti, tra cui il Centro Astalli, e numerosi gli enti locali, le comunità e i singoli cittadini che saranno impegnati a ripulire dai rifiuti abbandonati strade e piazze, angoli delle città, parchi urbani, ma anche sponde di fiumi e spiagge.

Prendersi cura dell’ambiente e del proprio territorio è un dovere ma non esiste giustizia climatica senza giustizia sociale. Per questo il messaggio della trentesima edizione di Puliamo il Mondo è “PER UN CLIMA DI PACE”.

In questo quadro, Legambiente, alla vigilia della Giornata nazionale della Memoria e dell’Accoglienza del 3 ottobre, presenta i dati del dossier “Migranti ambientali, gli impatti della crisi climaticaper ricordare che nel mondo esistono popolazioni e gruppi sociali più fragili, che pagano il prezzo più alto della crisi climatica: persone con limitato accesso a servizi e risorse o che vivono in uno stretto rapporto di sussistenza socioeconomica con il territorio circostante. Oltre il 40% della popolazione mondiale (tra i 3,3 e i 3,6 miliardi di persone) vive in contesti di “estrema vulnerabilità ai cambiamenti climatici”. Tra le macroregioni più a rischio l’Africa occidentale, centrale e orientale, l’Asia meridionale, l’America centrale e meridionale, i piccoli stati insulari in via di sviluppo e l’Artico: in queste aree, tra il 2010 e il 2020 la mortalità umana a causa di eventi estremi come inondazioni, tempeste e siccità è stata 15 volte superiore rispetto alle regioni che presentano una minore vulnerabilità.

Secondo il rapporto” Groundswell” della World Bank, a causa della crisi climatica, entro il 2050, 216 milioni di persone in sei diverse regioni del mondo potrebbero essere costrette a spostarsi all’interno dei loro paesi. Inoltre, secondo lo studio “Il clima come fattore di rischio per i conflitti armati” pubblicato dalla rivista Nature, dal 3% al 20% dei conflitti avvenuti durante lo scorso secolo ha avuto fra le cause scatenanti fattori legati al clima. È il caso, ad esempio, della guerra civile siriana – con 6 milioni e 700 mila sfollati interni in 10 anni – collegata alla scarsa disponibilità idrica causata da una lunga siccità, un innesco climatico seguito da un intreccio di fattori come tensioni religiose, politiche e sociali che hanno ridotto la popolazione allo stremo. O ancora quello della regione africana del Sahel, dove circa il 70% della popolazione vive di agricoltura e pastorizia e le tensioni già esistenti per questioni di suolo e accesso alle risorse idriche sono esacerbate da lunghi periodi siccitosi e violente piogge e inondazioni.

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