L’abbigliamento ha un ruolo fondamentale nella simbologia religiosa e soprattutto nell’universo sacerdotale.

Uomini e donne religiosi seguono regole ben precise, che vengono espresse indossando abiti particolari, oltre a segnare la loro appartenenza a una determinata comunità o a un ordine religioso. L’abito diventa così un simbolo di identità e riconoscimento, sia all’interno che all’esterno delle comunità religiose. Con svariati significati, la storia degli abiti religiosi si intreccia inevitabilmente con la cultura e le tradizioni locali, portando così a far nascere stili e significati di abbigliamento diversi gli uni dagli altri.

Nell’Ebraismo la persona adibita al culto era il sacerdote che aveva un ruolo di notevole importanza, soprattutto per il culto nel Tempio di Gerusalemme. Il termine ebraico per “sacerdote” è Cohen (כּהן, traslitterato anche kohèn), pl. cohanim (כּהנִים, traslitterato anche kohaním). Per l’ebraismo ortodosso infatti, con la distruzione del secondo tempio nel 70 d.C. e la cessazione dei sacrifici ebraici, quasi tutte le funzioni sacerdotali sono sospese in attesa della ricostituzione del Terzo Tempio, ad opera del Messia. 

Oggi, le uniche funzioni sacerdotali ancora svolte sono la “benedizione dei primogeniti” e la “lettura della Torah” nel culto sinagogale e il Rabbino, in quanto saggio e maestro, è portatore di questa eredità sacerdotale. Egli è la guida spirituale della comunità ebraica, colui che celebra le cerimonie e le funzioni religiose e ha l’obbligo di indossare alcuni oggetti durante (e non solo) durante il culto. Tra questi: la Kippah, per ricordare di non elevarsi mai al livello di Dio; il Talled con gli Tzitzt; i Tefillin (oggetti e vesti indossate durante le preghiere che sono stati già analizzati nella Scheda 1. “Coprire e scoprire il capo”). Durante le festività o nelle cerimonie, alcuni rabbini delle comunità più ortodosse indossano una bekishe, o beketshe (yiddish:בעקעטשע), una tunica (o anche cappotto) di poliestere o di seta da uomo, generalmente di colore nero, lunga fino alle ginocchia con bottoni nella parte frontale e maniche lunghe. Durante la settimana, indossano una rekel, fatta di lana o poliestere, simile ad un completo in doppio petto, ma più lungo.

All’interno del Cristianesimo per molto tempo non ci sono stati abiti che distinguessero il clero secolare; infatti il codice d’abbigliamento venne creato dai primi concili in epoca tardomedievale e poi definitivamente approvato dal Concilio di Trento (1545). Gli abiti monastici invece si affermarono fin da subito, in quanto portatori di un duplice significato: da una parte, la consacrazione a Dio, dall’altra l’appartenenza ad una condizione di vita. Nel monachesimo gli abiti divennero un vero e proprio simbolo dell’alterità del monaco e un elemento fondamentale per indicare un’appartenenza sociale. Semplicità e povertà da sempre hanno caratterizzato le vesti monastiche, a tutti i livelli.

Un esempio sono i monaci benedettini che adottarono diverse regole legate all’abbigliamento: vesti molto semplici, composte da un cappuccio, un camicione che si indossava sotto la veste, una veste utilizzata per lavorare e delle calzature con lacci legati intorno alla caviglia. Un abbigliamento modesto e uguale per tutti i suoi membri. Ben presto, iniziarono ad aumentare le varie confraternite religiose e di conseguenza anche l’abbigliamento si adattò e si moltiplicò in base ai nuovi ordini religiosi nascenti. L’aumentare della fama degli ordini monastici, in moltissimi casi non fece altro che allontanare dai monaci l’elemento cardine della loro identità, cioè l’abito: nonostante si imponesse l’utilizzo di vesti semplici, la realtà era ben diversa. Molti monaci infatti iniziarono a indossare degli abiti elaborati e costosi e tutto ciò causò, nel X secolo, polemiche e contestazioni, veri e propri movimenti di rivolta che sfociarono nell’intervento di concili e condannarono lo sfarzo dei monaci. Con il Concilio Vaticano II, gli abiti religiosi sono stati revisionati e semplificati, riconoscendone la non obbligatorietà. 

In merito agli abiti sacerdotali, nelle chiese cristiane cattoliche e ortodosse troviamo il paramento liturgico (dal latino parare che significa “preparare”), un abito che viene utilizzato durante le celebrazioni liturgiche dal ministro o dai ministri che presiedono la celebrazione o che realizzano un servizio liturgico. Alcuni dei paramenti sono realizzati nei colori che corrispondono al periodo dell’Anno liturgico che si sta celebrando. Esso si differenzia dagli abiti particolari che il clero come diaconi, presbiteri, vescovi, religiosi oppure monache o suore possono indossare abitualmente per sottolineare il loro particolare stato. Fra questi vi è l’abito talare, il cui scopo primario è l’identificazione del sacerdote per renderlo visibile alla comunità, dimostrando così la sua vocazione e le responsabilità nei confronti dei fedeli.

L’abito talare, dal latino talaris “che scende fino ai talloni” è l’abbigliamento religioso maschile più utilizzato. Si tratta di una lunga veste, chiusa da bottoni e indossata durante le attività religiose, che a volte viene coperta con dei paramenti sacri. L’abito classico è di colore nero, che può essere arricchito con fasce, bottoni e accessori di colore diverso; nei mesi più freddi si può aggiungere un lungo cappotto chiamato “greca”. Modello e colore cambiano in base al grado sacerdotale; coloro che sono di grado più elevato indossano, oltre alla veste talare anche una mantellina detta pellegrina.

Al giorno d’oggi, nonostante l’abito talare sia ancora utilizzato, si preferisce un’alternativa più moderna, il clergyman, un completo che consiste in pantaloni, camicia e giacca. Per rendere riconoscibile il funzionario religioso quando indossa il clergyman, è stata creata una camicia con un colletto speciale, che può essere di due tipi; il primo detto “alla romana” una fascetta di plastica bianca sopra il colletto nero; il secondo tipo prevede un inserto di plastica bianca che viene infilata nel colletto grazie a delle fessure. Anche i colori hanno un ruolo centrale nelle vesti religiose, perché aiutano a differenziare tra loro i molti ordini religiosi che ci sono all’interno del cristianesimo.

L’importanza dei colori è dovuta alla gerarchia ecclesiastica: nero per i sacerdoti, viola per i vescovi, rosso per i cardinali, bianco per il papa. Anche nelle funzioni liturgiche i sacerdoti indossano la casula liturgica con colori diversi in base alle funzioni che devono svolgere, alcuni di questi sono: il bianco che simboleggia la purezza, la gioia derivata dalla Fede, e la risurrezione; il verde simbolo di speranza, ascolto e costanza; il viola simboleggia il lutto e infine il rosso la passione e il sangue di Cristo. Altri colori che possiamo trovare sono l’azzurro e il rosa simbolo di gioia e prosperità, l’oro simbolo di regalità.

Per quanto riguarda l’abbigliamento femminile in ambito liturgico si sa poco sui primi abiti utilizzati, mentre in epoca contemporanea gli abiti femminili si sono moltiplicati a seguito dell’aumento degli ordini religiosi femminili. Molto spesso le donne ordinate indossano gli stessi abiti degli uomini, per quanto riguarda gli ordini Carmelitani e Francescani, mentre nei Benedettini e Domenicani le religiose indossano il velo e gli uomini un cappuccio. Il velo delle suore e monache è un elemento molto importante in quanto simbolo di castità e di umiltà. Come abbiamo visto nella Scheda 1. “Coprire e Scoprire” il capo, il velo però può essere utilizzato anche da donne laiche. Altre componenti dell’abbigliamento femminile sono il soggolo che consiste in una fascia di tela o di velo che avvolge il collo in modo tale da fasciare il viso nascondendo i capelli, e il frontino, un’ampia tonaca che arriva fino alle caviglie, con maniche larghe, di solito stretta in vita da un cordone o cintura. Al giorno d’oggi gli abiti delle suore si differenziano molto per taglio e colori.

Nella Chiesa ortodossa, gli abiti religiosi non sono molto differenti dal clero cattolico. Fra questi vi è la tonaca che possiamo ritrovare sia nella chiesa ortodossa che in quella cattolica di rito bizantino. Per il clero ortodosso sono presenti due tipologie di abiti quelli non liturgici – chiamati tonaca interna e esterna, e quelli liturgici con l’aggiunta di paramenti come l’Epitrachélion, dal greco Ἐπιτραχήλιον “ciò che è intorno al collo”: una stola da collo sacerdotale, costituita da una larga striscia di tessuto piegata a ‘U’ che va girata attorno al collo e giunge sino ai piedi. È adorna di croci e termina con una frangia e simboleggia la Grazia divina profusa sul ministro nell’esercizio delle sue funzioni. La tonaca interna è un abito lungo fino al pavimento con maniche lunghe e aderenti, mentre le tonache esterne sono abiti lunghi meno aderenti con maniche larghe. Essendoci molte chiese che rispondono a patriarcati diversi, come il Patriarcato di Mosca, Patriarcato di Romania, Patriarcato di Costantinopoli, ecc., gli abiti hanno subìto delle evoluzioni diverse a seconda del patriarcato di riferimento. Ad esempio, nella tradizione russa, che fa riferimento alle chiese sotto il Patriarcato di Mosca, il clero monastico indossa tonache di colore scuro come il nero e blu, mentre quello sposato indossa tonache di colori più chiari. In più i colori della fodera delle maniche hanno lo scopo di indicare il rango del sacerdote. Un’altra differenza tra le chiese è quella della cintura. Nella tradizione russa la cintura è molto elaborata, mentre nelle chiese romene o serbe è molto più semplice, con il solo scopo di stabilire il rango del sacerdote. Nella tradizione greca, è un semplice nastro o corda legata intorno alla vita. È importante sottolineare che la tonaca viene indossata sia dai sacerdoti che da diaconi, monaci e monache, ma molto spesso viene dato il permesso di indossare la tonaca anche ai novizi monastici e seminaristi. Anche nell’abbigliamento ortodosso, si utilizzano colori liturgici, nello specifico: verde, viola, rosso, blu, oro e bianco.

Ultimo indumento da nominare è la skufia. Si tratta di un copricapo, fatto di un materiale morbido la cui altezza varia in base ai modelli. I colori giocano un ruolo fondamentale nella differenziazione gerarchica: il nero è per i monaci, rosso o viola per i preti, mentre i vescovi di alto rango indossano nero o viola con una piccola croce sopra. La skufia russa è differente dalle altre, poiché è indossata in modo tale da coprire la parte superiore delle orecchie, un piccolo espediente per ripararsi dal freddo ma allo stesso tempo ha anche un significato simbolico quello di non prestare ascolto ai pettegolezzi.

Nella Chiesa protestante, specialmente in quella Luterana e Calvinista, gli officianti della funzione religiosa utilizzano un altro tipo di abito, la toga. Questa veste si intreccia non solo con gli aspetti religiosi ma anche con quelli laici, andando ad assumere due significati diversi pur essendo lo stesso indumento. Questo abito viene indossato durante il culto evangelico e la predicazione. La prassi fu voluta dai primi riformatori, in aperta polemica con l’usanza cattolico-romana di usare i paramenti liturgici, in quanto la toga era un abito laico, così come lo è il pastore. Questa veste è un segno di riconoscimento in ambito di formazione accademica, (di norma chi consegue un dottorato) e, per questo motivo, il pastore riformato viene considerato un ecclesiastico, non rivestito di particolari funzioni sacerdotali. Il pastore, visti i suoi studi teologici – pubblicamente riconosciuti – svolge una funzione simile a quella di un magistrato civile, ma ovviamente di tipo ecclesiastico, seguendo la “legge della Scrittura” e applicandola caso per caso. La toga serve anche a comunicare l’autorità e il dovere del ministro ordinato nel predicare la Parola di Dio e proclamare l’Evangelo di Gesù Cristo.

Chiunque la porti è considerato un dotto della Parola, oltre ad avere il compito di insegnarla ai fedeli. L’utilizzo della toga è circoscritto alla funzione del culto comunitario. Per ragioni storiche e teologiche, questa veste è presente non solo nelle chiese riformate ma anche in quelle presbiteriane e congregazionaliste. Questo abito è fatto di materiali pesanti di colore nero con delle maniche larghe, polsini e due facciole bianche a imitazione di un lungo colletto di una camicia. Sulle maniche si trovano dei galloni di vario genere che indicano il titolo accademico di chi la indossa. Oggi è più comune abbandonare l’uso della toga nera per una sorta di saio bianco, oppure indossare un semplice vestito civile simile a quello dei fedeli, ribadendo una grande differenza con gli aspetti cristiani dell’abito talare che invece serviva a differenziare uomini laici da quelli ecclesiastici.

L’Imam è una figura molto importante all’interno della religione islamica, sia tra i sunniti che tra gli sciiti, anche se con alcune differenze. Identificato come guida religiosa e punto di riferimento per la comunità, è colui che svolge le attività del culto, come le preghiere. Per i musulmani sunniti questo titolo è usato principalmente per colui che guida la preghiera in una moschea mentre per i musulmani sciiti gli imam sono guide indiscusse, proclamate da Dio. Per officiare alle preghiere l’imam indossa il dishdasha, un abito di cotone o lana durante i mesi più freddi, a maniche lunghe, che arriva fino alle caviglie, generalmente di colore bianco ma può essere anche di altri colori come il nero, il blu o il marrone. Come copricapo indossa la shashia, forma cilindrica e in lana pettinata, in seguito tinto di rosso, anche se al giorno d’oggi si trovano di vari colori.

Nell’Induismo, quella del guru è una figura cardine nella società, poiché ricopre una posizione altissima, ma altrettanto importante è la relazione tra maestro e discepolo. Il termine guru deriva dall’unione di due particelle: gu, oscurità, intesa come ignoranza e ru, luce, conoscenza. Egli tramite l’insegnamento, guida il discepolo attraverso un percorso di evoluzione che lo condurrà non solo alla conoscenza ma anche ad una rinascita spirituale. In questo senso, le vicende dei guru si intrecciano con quelle del monachesimo indù che ha tra i suoi scopi quello della ricerca dell’Assoluto che avviene tramite l’uscita dal mondo e la pratica dell’ascesi. All’interno della complessa società indù e figure religiose infatti vi sono gli asceti, persone che vivono isolati dalla società per una vita di meditazione o Yoga indossando il dhoti, o indumenti intimi oppure, in particolari tradizioni, scegliendo la nudità in particolari tradizioni.

Nella tradizione indù esistono diversi tipi di asceti che si differenziano tra loro, non solo per il nome ma anche per il modo in cui svolgono le loro attività spirituali, e spesso attraverso il loro abbigliamento. Fra questi vi sono i muni, saggi silenziosi che vivono in una contemplazione continua, identificabili dai loro vestiti color ocra e che praticano austerità e meditazione nel silenzio conducendo una vita virtuosa legata al concetto di non nuocere e non danneggiare gli essere viventi. Il titolo di svami, maestri della via spirituale, viene dato solo ai monaci che sono riusciti a dominare il proprio corpo, la mente e lo spirito. Mentre il rishi, citato anche nei Veda è considerato il prototipo del monaco che storicamente praticava con rigore religioso all’interno del proprio eremo. Alcuni erano capifamiglia, mentre altri si concentravano sulla castità, il sacrificio e la rinuncia. Vi sono poi i dashanami, che appartengono all’ordine dei rinuncianti e fra questi alcuni si rasano barba e capelli, il giorno di luna piena per segnalare la rinuncia al mondo mentre altri lasciano entrambi non rasati. Le loro vesti sono di un colore che va dal giallo ocra allo zafferano e all’arancione, che simboleggiano il non attaccamento alle cose mondane. Certamente vi sono delle eccezioni: alcuni portano abiti di colore bianco – utilizzato anche durante il noviziato – o il rosso s seconda della tradizione a cui appartengono (come spiegheremo anche nella Scheda 3. Simboli e oggetti sacri). Gli asceti shaiva – coloro che seguono Shiva- si identificano attraverso una mala di semi di rudraksha, un vaso per l’acqua, una pelle di animale sulle spalle ma soprattutto per il segno delle tre linee orizzontali sulla fronte detto tripundra. Essi sono segni distintivi di Shiva e rappresentano il suo triplice potere: volontà, azione, conoscenza e simboleggiano inoltre la triade divina di Brahmā, Vishnu, e Shiva. Pe quanto riguarda gli asceti vaishnava, i seguaci di Visnu, portano anche loro una mala in legno e sulla fronte i segni distintivi di Visnu, un segno verticale a forma di U, formato da due linee bianche che racchiudono un punto rosso e nero, a simboleggiare i piedi di Visnu.

Una figura di grande spicco della tradizione hindu è il Brahmān, sacerdote che celebra i riti nella società. Nella sua accezione di nome “maschile”, brahmān, nei Veda indica “officiante del sacrificio vedico” in grado di pronunciare i mantra relativi alla conoscenza ispirata. Viene anche chiamato bramino, bramano, brahmano, è al primo posto nella Varṇaśrama dharma o Varṇa vyavastha, la tradizionale divisione in quattro caste (varṇa) della società induista. Per questo viene considerato l’unico detentore del sapere, a cui spetta la celebrazione dei rituali religiosi più significativi. Il Brahman si distingue grazie alla upavita, un filo sacro che gli viene conferito durante la sua investitura in giovane età. Viene portata sospesa al collo durante l’offerta dell’acqua ai santi; sulla spalla destra per i riti degli antenati. Egli indossa un dhoti, lasciando scoperto il busto, ma sul corpo porta i segni disegnati della propria tradizione. Il colore principale della casta dei bramani è il bianco simbolo di purezza.

Anche il sari o anche saree, è un abito tradizionale, indossato dalle donne indiane, con origini antiche databili al 100 a.C. Questa veste è molto spesso associata alla femminilità e alla grazia. Geograficamente presente anche in Nepal, Sri Lanka, Pakistan e Bangladesh, il sari è composto da una striscia di stoffa molto larga, che va indossata avvolgendola intorno al corpo in modi diversi affinché si possa adattare alla situazione o alla circostanza in cui si indossa. Il modo classico di indossare un sari è chiamato nivi: la stoffa viene avvolta intorno alla vita mentre una delle estremità viene fatta passare sopra la spalla. Di norma, le donne indiane accompagnano al sari una maglietta aderente o bustino, detta choli. I colori e i disegni della stoffa che si utilizzano cambiano a seconda degli ordinamenti religiosi, cosi come il numero di pieghe.

Le comunità dei monaci, dette Sanga sono state un elemento fondamentale per la diffusione del Buddhismo in Asia. Tra i principali segni di riconoscimento, oltre che la rasatura e la ciotola dell’elemosina, vi è la veste del monaco. L’abbigliamento monastico è stato organizzato secondo il codice di disciplina Vinaya, raccolta scritturale delle norme di condotta seguite dai monaci e dalle monache. Secondo il Vinaya, la prima azione fondamentale per l’abbigliamento è indossare degli stracci, poi divenuta una risorsa essenziale per un monaco. Originariamente le vesti venivano realizzate usando la tecnica del patchwork che consiste nel mettere insieme strisce o pezzi di stoffa inizialmente separati. Questa tecnica poi trasformatasi in tradizione, arrivò anche in Cina e in Giappone dove le vesti imitano l’effetto patchwork tramite dei disegni, soprannominate tuniche da risaia. La seconda azione imprescindibile secondo le regole Vinaya consisteva nel dare il permesso ai monaci di ricevere dai laici, gli abiti o i materiali necessari per realizzarli. Offrendo ai monaci non solo stracci, ma anche materiali migliori, si arrivò all’ammissione di sei tipi di materiale: lino, seta, stoffa di canapa, tela, cotone, lana. Il termine “veste” cambia a seconda dei territori: senyi in Cina, kesa o kaṣāya in sanscrito, lett. “ocra” o “arancione” in Giappone, kashaya in altri territori buddisti. Essa viene drappeggiata sotto un braccio e fissata alla spalla opposta.

All’interno del Buddhismo abbiamo moltissime correnti, con relativo abbigliamento a seconda dell’ordine di appartenenza. La veste è normalmente appesa alla spalla sinistra, lasciando scoperta la spalla destra, anche se in alcuni testi antichi si parla di discepoli che sistemano le loro vesti sulla spalla destra prima di avvicinarsi al Buddha con una domanda. I sandali sono ammessi se semplici e con una sola fodera. Per evitare i colori primari, le vesti buddiste sono di colori misti con significati ben precisi; l’arancione porta alla rinuncia di qualità negative come la passione, rabbia, invidia; il marrone è detto anche “colore della terra”. I colori predominanti sono il giallo, l’arancio e il rosso. Nel Buddhismo Zen, il Kesa è precisamente un mantello indossato dai monaci buddhisti come paramento rituale composto da vari pezzi di stoffa uniti da cuciture sovrapposte che si può trovare anche nella sua versione ridotta, quadrata e appesa al collo. I colori per gli abiti del buddhismo zen cambiano a seconda del territorio; in Giappone si utilizzano il bianco e il nero; in Corea, il rosso scuro e il grigio; in Cina, il nero, il grigio e il marrone. La scelta di adottare colori cosi scuri è dovuta al loro significato; va sottolineato che nello specifico il colore giallo fu rifiutato perché associato al potere imperiale. la vita delle monache buddhiste invece non è differente da quelle dei monaci uomini che consiste in studio, pratica e meditazione; anche le monache si radono il capo e vestono gli stessi abiti, ma indossano una cintura e una gonna mentre nella scuola Theravada le monache indossano anche abiti bianchi.

Nella cultura sikh, l’abito tradizionale comprende il turbante e la kurta, un’ampia camicia lunga fino alle ginocchia con maniche lunghe o corte, indossata sia dagli uomini che dalle donne. Quest’ultima viene indossata con pantaloni tradizionali come i churidar, ma ad oggi viene abbinata con i jeans. I kurta da uomo sono tendenzialmente bianchi a tinta unita oppure a righe, mentre quelli da donna vanno dal bianco a colori più sgargianti, con ricami o stampe multicolori. Il turbante è un elemento fondamentale, e che varia nei colori, dall’arancione, al blu e al bianco. Il suo utilizzo è obbligatorio per gli uomini, mentre per la donna si tratta di una scelta e in alternativa può indossare un velo (Come abbiamo già approfondito nella Scheda 1. “Coprire e Scoprire” il capo). Esso è un simbolo di onore e rispetto che si fonde con l’identità sikh. Il turbante non ha solo uno scopo identitario ma anche pratico; infatti aiuta a mantenere il cuoio capelluto e i capelli, puliti e protetti. (Scheda 3. Simboli e oggetti sacri). Gli abiti tradizionali sikh si sono evoluti nel tempo, assumendo forme e stili diversi caratterizzati da colori vivaci, intricati da ricami e perline, rendendo l’abbigliamento un simbolo di identità e orgoglio della cultura sikh, oltre a ricordarne la storia. Come vedremo, il codice d’abbigliamento sikh è stato tracciato dal decimo Guru, Gobin Singh, colui che stabilì anche l’obbligo di indossare le cinque kappa e il turbante. Ci sono diversi tipi di abbigliamento all’interno della cultura sikh, che si dividono, a seconda della funzione che si deve svolgere.

Per indicare il tradizionale abbigliamento spirituale si utilizza la parola Bana, che viene indossato durante una cerimonia al tempio, o durante le feste. Il tipico abbigliamento indossato dai guerrieri viene chiamato Chola, che assomiglia ad una specie di vestito o vestaglia, con un’ampia gonna svasata, per consentire libertà di movimento. Altro indumento è la fascia da collo hajoori, fatta della stessa stoffa dei turbanti, di solito di colore bianco o arancione, indossato durante la lettura devozionale. Infine le calzature, che vengono tolte prima di entrare nel tempio sono ancora quelle tradizionali: pantofole in stile punjabi, con la punta arricciata e dei ricami, anche se al giorno d’oggi molti preferiscono le calzature moderne. Molto spesso anche gli abiti sono arricchiti con dei ricami, andando a creare o applicare il simbolo Khalsa o stemma sikh. Anche per andare a dormire c’è un particolare abbigliamento che deve essere rispettato: la Kurta in versione pigiama, una specie di camicia lunga con spacchi laterali, sulla quale sono presenti delle tasche e al di sotto si utilizzano dei pantaloni abbinati.

Parlare di veste tradizionale sikh significa parlare di veste tradizionale indiana o del sud-est asiatico. Anche i Salvar Kameez sono abiti tradizionali dell’Asia in particolare India, molto utilizzati anche nell’area del Punjab. Salvar sono pantaloni larghi con polsini alla caviglia chiamati ponche. Il kamees è un vestito con stili e colori differenti con sopra dei ricami, che va indossato sopra i pantaloni. Il termine kamiz o kameez deriva dall’arabo, salwar dal persiano. La salwar kamiz consiste di tre parti: salwar, kamiz e dupatta. La kamiz è una camicia lunga fino al ginocchio che permette grande libertà di movimento a chi la indossa. Le donne portano anche la dupatta, uno scialle lungo e largo che copre il capo, le spalle e il collo. Come abbiamo visto, la camicia degli uomini è anche chiamata kurta. I Salvar Kameez sono disponibili in diverse forme, colori e lunghezza senza rappresentare necessariamente tradizioni locali, ma solo per soddisfare il gusto di chi le indossa. Allo stesso modo le alternative occidentali di vestiario sono anch’esse molto usate all’interno della comunità sikh, ovviamente quando si parla di vita al di fuori delle funzioni religiose.

Immagini utilizzate:

  1. Toga protestante: Archivio Centro Astalli
  2. Veste imam: Archivio Centro Astalli – Valentina Pompei
  3. Abbigliamento uomo sikh – Archivio Centro Astalli – Valentina Pompei