I simboli religiosi per le loro caratteristiche universali, veicolano da sempre la comprensione e la diffusione di concetti-chiave delle rispettive religioni in diversi strati della popolazione.

Il simbolismo religioso è molto presente nei testi sacri e negli insegnamenti tramandati dalle scritture e dai maestri.

Nell’Ebraismo, oltre la Kippah, (di cui abbiamo parlato nella Scheda 1), troviamo altri oggetti e indumenti, con una valenza sacrale e simbolica di spicco, utilizzati e indossati dagli uomini ebrei (o anche dalle donne nella comunità riformate) durante la preghiera, quali il Talled e il Tefillin. Il Talled è un manto che si indossa per la preghiera del giorno che vede alle sue estremità gli Tzitzit, letteralmente “frange o nodi” poste sui quattro angoli. Nella Torah sono numerosi i riferimenti al talled e tefillin, che possiamo definire come “un ricordo” di tutti i precetti ebraici: Tu vedrai gli tzitzit nei quali sei avvolto e ti ricorderai tutte le mitzvot: i 613 precetti. Anche nella scelta della parola tzitzit troviamo un significato ben preciso: essa corrisponde al numero 600; a questo numero si aggiungono i 5 nodi che ci sono su ogni angolo più 8 fili, arrivando a 613. Prima di indossarli, viene richiesto un controllo accurato: è obbligatorio che gli tzitziot siano integri, per poi recitare la berakah, la benedizione; per alcuni secondi ci si avvolge completamente e infine si ripiega sulle spalle per iniziare la tĕfillāh, la preghiera ebraica.

Per saperne di più guarda questo video e scopri come si indossa il Talled!

I Tefillin, (filatteri in italiano) sono definiti dalla Torah come un segno; un ebreo che li indossa dichiara a chi e a che cosa appartiene. Per questo si comincia a utilizzarli con il compimento della maggiorità ebraica: Bar/Bat Mitzvah. La radice di tefillin rimanda per alcuni all’idea di pregare ma altri la connettono all’atto di legare. Si tratta di scatoline fatte di pelle di un animale necessariamente kosher, al cui interno si trova una pergamena con alcuni brani della fede ebraica, come lo Shemà Israel, – preghiera della liturgia ebraica -, attraverso cui si afferma che Dio è unico. Si legge: E legherai [queste parole] come un segno sul tuo braccio e come frontali tra i tuoi occhi (Devarim/Es 6,4-9). Una scatolina/tefillin va messa sulla testa e simboleggia la mente, la razionalità e l’intelletto; l’altra sul braccio sinistro a rappresentare l’azione, in corrispondenza del cuore per ricordare il sentimento e l’emotività. Non è facile far sì che mente, azione, cuore vadano nella stessa direzione. Lo scopo è quello di aiutare un ebreo a creare armonia tra questi tre elementi. La regola è quella di indossarli in tutti i giorni feriali, per la preghiera del mattino – ma si ha tempo di recuperare fino al tramonto – e mai nei giorni di festa e durante lo Shabbat.

Ma come si indossano? Si pone la scatolina sul braccio sinistro all’altezza del bicipide, si recita la Berakah, e misurando uno spazio di due dita si inizia ad avvolgere il laccio facendo 7 giri. Dal momento della preghiera non si può più parlare. Si pone in testa il secondo tefillin, che deve avere due punti fissi: alla base dell’attaccatura dei capelli e dietro il nodo alla fine della nuca. Si continua a girare il laccio del tefillin del braccio con dei giri intorno al dito medio. Si tratta di un precetto che la tradizione fa risalire a Mosè, in quanto nella Torah si narra che intravide il nodo del tefillin sulla testa di Dio. Inoltre, a causa della disobbedienza di un uomo, Dio aveva comandato al popolo di apporre delle frange di filo blu ai vestiti per ricordare a tutti di obbedire alla sua legge (Nm 15,32-41). Guarda questo video per approfondire il significato dei tefillin!

Nel Cristianesimo antico furono molti i simboli ripresi dalla tradizione ebraica, spesso reinterpretati. La simbologia dei primi cristiani era collegata al mondo degli animali ma con la sua diffusione è stata estesa anche ad oggetti ed elementi suggeriti dagli Apostoli, dai Padri della Chiesa e dai successivi Concili. Tra questi non possiamo non approfondire la Croce e la Corona del rosario, entrambi di grande valore simbolico.

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima? O che cosa l’uomo potrà dare in cambio della propria anima? Poiché il Figlio dell’uomo verrà nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e renderà a ciascuno secondo le sue azioni. (Mt 16:24-27)

La Croce, uno dei primi soggetti rappresentati, a mosaico o dipinta, sulle absidi delle basiliche paleocristiane, nel tempo diviene simbolo di riferimento per i fedeli cristiani, laici e religiosi. Portarla come oggetto sempre con sé indica la propria appartenenza alla fede cristiana, anche se vi sono delle differenze tra quella che possiamo definire la croce delle chiese occidentali (cattolici e protestanti) e quella delle chiese orientali (ortodossi e cattolici rito bizantino). Simbolo inizialmente riservato agli schiavi, entrerà a far parte dell’apparato simbolico dal IV secolo, riferendosi alla scena della crocifissione raffigurata nel Nuovo Testamento. Secondo la tradizione, Gesù stesso doveva portare la croce su cui doveva morire nel luogo dell’esecuzione. Nel 380 con l’editto di Tessalonica promulgato dall’Imperatore Teodosio I, il Cristianesimo divenne religione unica e obbligatoria dell’Impero, e i cristiani cominciarono a confessare la morte di Gesù sulla croce. Da questo momento la croce cessò di essere un segno di morte e diventò un segno della risurrezione e della vita divenendo la rappresentazione del mistero di Cristo (incarnazione, passione, risurrezione e ritorno) e quindi il mistero centrale della fede cristiana. Per tale motivo essa cominciò a comparire nell’arte cristiana come croce gloriosa, dorata e tempestata di gemme, o come crocifisso in cui Cristo, pur rappresentato in una situazione di morte, aveva già i segni della risurrezione. Secondo molti studiosi, la simbologia della vita viene probabilmente ereditata dall’Ankh (☥; conosciuta anche come croce ansata o chiave della vita), un antico e sacro simbolo egizio. Gli dei sono spesso raffigurati con un ankh in mano, o portato al gomito, oppure sul petto.

Nella Bibbia, la croce appare nel Vangelo di Giovanni, negli Atti degli Apostoli e nelle lettere dell’apostolo Paolo. Se la crocifissione di Gesù sia avvenuta davvero su una croce o su un palo in legno non può essere interpretato con certezza, poiché la traduzione dal greco può significare sia “legno” che “croce”. È solo dalla traduzione del Nuovo Testamento in latino che si parla senza ambiguità della “croce” e della “crocifissione”.

Con la crocifissione di Gesù si è stabilito un collegamento tra l’esistenza terrena e il cielo. Secondo l’interpretazione della Chiesa, la scena della crocifissione indica i sacramenti ecclesiastici dell’Eucaristia e del Battesimo, per questo la croce si trova spesso sui ceri battesimali.

Figura geometrica composta di due linee o barre che si incrociano con un angolo retto, in maniera tale che una di esse (o entrambe) venga divisa a metà, la croce è uno dei simboli umani più antichi. (vedi Focus Arte). La croce, ancora oggi in uso, è chiamata anche Crux immissa. L’asse orizzontale della croce rappresenta l’esistenza terrena e la connessione con gli esseri umani. All’asse verticale viene attribuito il significato del divino. Altre interpretazioni vedono negli assi il maschile e il femminile, lo spirito e la materia o l’anima e il corpo.

La croce ortodossa è suddivisa in una linea verticale e tre linee traversali, due ravvicinate sulla parte alta della croce e una più in basso, quasi ai piedi della croce, in posizione obliqua. Ogni barra rappresenta un particolare dettaglio del momento della crocifissione. La parte più alta, stretta, rimarca la targa INBI in greco, corrispondente all’INRI latino, che sta per “Gesù Nazareno, Re degli Giudei”. La barra centrale rappresenta le braccia aperte del Cristo crocifisso. La barra più bassa, anch’essa più stretta rispetto a quella centrale, simboleggia il poggiapiedi, su cui il sangue di Cristo colava durante la crocifissione. Dal momento che la tradizione ortodossa non fa grande uso di statue, la rappresentazione tridimensionale del Cristo appeso viene a mancare. È sostituita da una raffigurazione, realizzata direttamente sul materiale della croce, senza rilievo. La Croce stessa non è icona di morte e dolore, bensì simboleggia la vittoria sulla morte e sul dolore stesso. Questa è la ragione dell’ultimo dettaglio presente sulla croce ortodossa, e assente su quella cattolica: sotto la targa INBI e sopra il capo di Gesù è incisa, spesso, l’espressione greca IC XC NI KA. Letteralmente, “Gesù Cristo vince”.

Anche il segno della croce è un atto con una forte connotazione simbolica. L’usanza di farlo con le dita risale al III secolo. I cristiani occidentali usano cinque dita aperte che simboleggiano le cinque sacre ferite di Gesù Cristo che ha sofferto sulla croce. Il gesto si compie toccando con la mano prima la fronte, poi la parte inferiore del petto o dello stomaco e poi entrambe le spalle. I cristiani occidentali (compresi cattolici e protestanti) toccano prima la spalla sinistra e poi quella destra. Quest’ordine simboleggia la tradizionale opposizione cristiana tra il lato destro – come luogo dei giusti – e quello sinistro – luogo dei dannati. Portando la mano prima sulla spalla destra e poi sulla spalla sinistra, invece, il cristiano ortodosso chiede di essere annoverato tra i salvati e di essere liberato dal destino dei perduti.

Nelle chiese ortodosse orientali e cattoliche bizantine, le punte delle prime tre dita (pollice, indice e medio) restano unite, mentre le altre due (anulare e mignolo) vengono premute contro il palmo. Le prime tre dita esprimono la fede nella Trinità, mentre le altre due rappresentano le due nature di Gesù, divina e umana.

Un altro simbolo che riferiamo immediatamente al Cristianesimo è la Corona del rosario. La parola “rosario” (dal latino rosārium, “rosaio”) deriva da un’usanza medioevale che consisteva nel mettere una corona di rose sulle statue della Vergine; queste rose erano simbolo delle preghiere rivolte a Maria. Così nacque l’idea di utilizzare una collana di grani (la corona) per guidare la preghiera. È proprio da questa usanza che nel XIII secolo, i monaci dell’Ordine cistercense elaborarono, a partire da questa collana, una nuova preghiera che chiamarono rosario, dato che la comparavano a una corona di rose mistiche offerte alla Vergine (nell’accezione latina di corōna (ovvero ghirlanda di rose, alla Madonna). La corona del rosario di norma è formata da 50 grani in gruppi di dieci (le decine), con un grano più grosso tra ciascuna decade. Esistono alcuni rosari con centocinquanta o cento grani; questi numeri sono stati scelti in passato per corrispondere al numero dei salmi o ad una frazione di essi, ovvero due terzi dei 150 salmi. Il conto delle preghiere si tiene facendo scorrere tra le dita i grani della “corona del Rosario” e si recita nella lingua corrente o in lingua latina.

Oltre che nella Chiesa Latina, oggetti simili sono rintracciabili in tradizioni più antiche dell’Oriente cristiano ma anche in altre religioni come Induismo, Buddhismo, Islam.

Nell’Islam vi è il misbaḥ o tasbīḥ (in arabo) che molti studiosi definiscono l’antenato del rosario cristiano; una collana di grani spesso usata dai musulmani per il conto del dhikr, la pratica del ricordo di Allah. Ne esistono due versioni che variano in base al numero dei grani: 99 + 1 e 33 + 1. Le origini del suo utilizzo sembrano risalire intorno al VII sec d.C., probabilmente per i contatti con la vicina India dove già veniva utilizzato il Japamala. Questa pratica è sorta nel Sufismo, corrente mistica islamica, in epoca relativamente tarda, nell’XI-XII secolo, ed è ben descritta da un testo di al-Ghazali: Dopo essersi seduto nella solitudine, il sufi non cesserà di dire con la bocca: Allah, Allah, continuamente, con la presenza del cuore.

Lo scopo di questa ripetizione è quello di ricordare Dio e dimenticare tutto ciò che non lo è, attuata attraverso l’invocazione del Nome di Dio (Allah) o dei suoi novantanove nomi, tanti quanti i grani del rosario: una pratica sia solitaria che collettiva (nelle confraternite di sufi) per comunicare con Dio. I 99 grani sono divisi in 3 sezioni, alla fine di ognuna si trova un grano più grande o diverso dagli altri e di forma longitudinale, che rappresenta il numero 100 e chiude la catena. Viene utilizzata anche per la recitazione dei versetti del Corano o delle preghiere da ripetere molte volte. In modo particolare sono tre le preghiere da ripetere:

Sub’hanallah: Gloria ad Allah (33 volte)

Alhamdulillah: Lode per Allah (33 volte)

Allah Akbar: Allah è grande (34 volte).

Il teologo Ibn al-Giawzî ha detto: La misbaha è una pratica raccomandabile, riferendosi a un hadîth di Sâfiyya che “glorificava Dio” utilizzando dei noccioli di dattero o dei sassi. Il profeta Mohamed approvò il suo procedimento.

Anche il tappeto da preghiera (in Arabo, سجادة sajjāda) è un oggetto molto utilizzato dai musulmani praticanti. Si tratta di pezzo di tessuto, spesso decorato e utilizzato durante le cinque preghiere giornaliere (Ṣalāt). Di tanti colori e svariati stili e modelli, la scelta varia in base a molteplici fattori; tra questi il gusto personale. Il significato del suo utilizzo risiede nel fatto che ogni musulmano non solo deve essere pulito prima di pregare e quindi compiere l’abluzione, il lavaggio rituale, ma deve farlo in un luogo o superficie puliti, sacri, per entrare in comunicazione con Dio.

Anche l’Induismo è una religione con un simbolismo fortemente formalizzato e codificato. Posture del corpo, i gesti delle mani (mudrā), oggetti, vestiario, ornamenti, personaggi e figure di contorno dell’arte cultuale sono codificati secondo un preciso simbolismo. Si tratta di un linguaggio simbolico, in grado di rendere visibili i miti e le storie contenute nei sacri Veda, immediatamente comprensibili in tutto il subcontinente indiano. Tra questi vi è la Mālā (devanāgarī माला “corona, ghirlanda, serie”) o Japamala, una ghirlanda composta da 108 pietre o grani, chiusa da un grano più grande, detto Meru o Sumeru. Il loro nome deriva dal sanscrito: Japa significa ‘’mormorare’’ e mālā “ghirlanda”. Secondo la tradizione si indossa al collo e/o al polso sinistro. Nella meditazione si utilizza con la mano destra passando i grani tra il pollice e il dito medio mentre si recita o sussurra il mantra scelto. Si muove la mālā in senso orario e quando si raggiunge il meru se si vuole continuare a recitare si parte nuovamente con l’ultima pietra, la 108, e si torna indietro in senso antiorario. Il meru non andrebbe mai oltrepassato e quando si raggiunge, la mente è invitata a ritornare alla sua piena presenza ed alla completa consapevolezza. Ad ogni singola ripetizione l’azione delle dita che scorrono i grani aiuta a non perdersi nell’inconsapevolezza e nell’automatismo, e la mālā diviene così uno strumento prezioso per la mente. Il numero 108 non è causale, ma ha un forte simbolismo per le diverse tradizioni nate in India, tra cui l’Induismo, il Buddhismo, il Sikhismo ed il Giainismo. Scomponendo le cifre scopriamo che l’1, detto bindu, è il punto dal quale inizia la creazione e si sviluppa la molteplicità; lo 0, ossia sunyata, è il vuoto, la vacuità, lo stato da raggiungere se ci si vuole liberare dal Samsara (ciclo perenne del divenire); mentre l’8, ananta, è l’infinito, il senza fine.

Anche la mālā nel Buddhismo è composta da 108 grani (o in multipli di 9), numero ricorrente nella numerologia buddhista e può essere costituita di grani di varia natura: dalle perle al legno di sandalo, alle ossa umane in area di cultura tibetana. La pratica prevede che venga utilizzata per mantenere il calcolo delle recitazioni dei mantra e delle preghiere, senza distrarre la mente dalla pratica religiosa con un calcolo numerico mentale: ad ogni recitazione la mano destra sgrana la mālā di un elemento facendo ruotare il pollice in senso orario su ciascun grano, mantenendo quindi un rapporto con la circonduzione del sole, – pratica religiosa diffusa nel Buddhismo, Induismo e nell’Islam (e in passato praticata anche in talune cerimonie religiose precristiane), che consiste nel girare attorno a una persona o a un oggetto fisico, come ad esempio all’interno degli Stūpa. Nel Buddhismo Zen, dove non vengono recitati i mantra, la mālā è un semplice bracciale che i praticanti portano al polso sinistro a ricordar loro simbolicamente 108 attaccamenti che ogni praticante deve evitare se vuole liberarsi dalla sofferenza.

Un altro simbolo molto diffuso, appartenente della tradizione culturale indiana è il Bindi o Bindu (sanscrito) che significa goccia, particella, punto, noto anche come terzo occhio. Si tratta di una decorazione della fronte, utilizzata perlopiù dalle donne dell’Asia del Sud, in particolare in India). La tradizione vuole che si applichi un punto di colore rosso oppure un pendente o un gioiello, al centro della fronte, in basso vicino le sopracciglia. Storicamente il suo utilizzo stava ad indicare l’età, lo stato civile, religioso ed etnico anche se con il passare degli anni il bindi ha cominciato ad essere indossato dalle donne asiatiche per una questione estetica, allontanandosi sempre di più dal suo originale significato. Infatti può essere utilizzato anche al di fuori dell’Asia, sia da donne di origini indiane, sia da donne occidentali convertite all’Induismo. Sebbene si tratti di un simbolo legato alla tradizione culturale indiana, per la religione hindu ha un significato per preciso: l’area fra le sopracciglia per l’appunto viene considerata il sesto chakra, ajna, la sede della “saggezza nascosta”. Secondo i credenti del Tantrismo, questo chakra è il punto di uscita per l’energia kundalini, ed è idealmente il punto metafisico al di fuori del tempo e dello spazio, dove il manifesto e il non manifesto si incontrano. Per tale ragione, si crede che il bindi posizionato in quel punto possa trattenere l’energia. Il tradizionale bindi è fatto con polvere rosso sindoor, con pasta di sandalo o polvere rossa della curcuma. Può essere utilizzato a volte anche un unguento nero.

Il Tilaka è un particolare bindi con una funzione decorativa e identificativa. Può essere utilizzato da un bramino, un asceta, un sadhu, o semplicemente un fedele, per cerimonie religiose, dalla nascita alla morte e molti arrivano ad applicarlo quotidianamente, dalla puja mattutina in poi. Nel caso dei religiosi, in base alla sua forma e al colore (bianco, rosso, nero) indica l’appartenenza a una tradizione indù. Ad esempio i seguaci di Shiva, gli Shivaiti sono soliti tracciare tre linee orizzontali nella fronte (Tripundra); i seguaci di Vishnu, Vishnuiti tracciano un segno simile ad una V (Urdha-Pundra); i seguaci di Ganesh disegnano una luna crescente sovrastata da un punto rosso in centro sulla fronte; i seguaci di Shakti*, la controparte femminile di Shiva, personificazione della forza ed energia femminile, usano tracciare sulla fronte una o tre linee orizzontali con un punto rosso in centro. Le paste utilizzate possono essere di sandalo, cenere, argilla o altra sostanza e vengono applicate alla fronte e in alcuni casi alla parte superiore della testa. Anche gli Hare Krishna indossano tale decorazione. (*Nell’universo simbolico induista, il colore della dea Shakti è il rosso).

Anche la religione Sikh è ricca di simboli portatori di uno specifico significato teologico, tra i più importanti; vi sono le Cinque K, – Pañj Kakār. Ogni credente che abbia compiuto il rito di ingresso nella comunità – Khalsa – attraverso il Battesimo assume determinati doveri validi per tutti, senza distinzioni di sesso o di condizione sociale, che si esprimono nei cinque simboli distintivi, conosciuti come le cinque K perché la prima lettera di ogni simbolo comincia con la lettera K.

Il primo tra tutti è il Kesh, con cui si indicano i capelli lunghi non tagliati. Nel 1699 i sikh ricevettero l’ordine da Guru Gobind Singh (il decimo guru) al Baisakhi Amrit Sanchar.

Spesso i capelli sono raccolti in un turbante, il simbolo più evidente del Sikh, che non va considerato come un semplice copricapo. È un oggetto religioso che simboleggia il rapporto tra il credente e Dio e la gratitudine che si deve al Creatore. Il turbante con cui i sikh, sia uomini che donne coprono i capelli non tagliati, è simbolo della perfezione della creazione divina.

Il Kangha, è un pettinino rigorosamente in legno, che simboleggia la cura e la pulizia personale. Pettinare i propri capelli ricorda a ogni sikh che le loro vite dovrebbero essere ordinate e organizzate. I Kangha sono tradizionalmente fatti di legno, perché la plastica va a rovinare i capelli.

Il Kara, è il bracciale di metallo della fedeltà a Dio. Ogni essere umano compie le sue azioni attraverso le mani e il bracciale deve essere tenuto nella mano destra per ricordare costantemente al fedele di non commettere cattive azioni.

Il Kachera, è un indumento intimo, simbolo di dignità e modestia indossato sia dagli uomini che dalle donne sikh iniziati al Khalsa. Il Kachera è il dono del Guru e ricorda ai Sikh il messaggio del Guru riguardante il controllo dei cinque mali, in particolare la lussuria. Inoltre, questo indumento consentiva al soldato Sikh di operare in combattimento liberamente e senza alcun ostacolo o restrizione.

Infine vi è il Kirpan, un oggetto rituale non offensivo, conosciuto come pugnale, che simboleggia il rispetto e l’integrità morale. Per un Sikh battezzato è imprescindibile averlo con sé.