Ritratti di migranti

L’arte ha la capacita di raccontare, attraverso prospettive diverse, l’esodo interiore ed esteriore degli essere umani, la fuga di milioni di persone, uomini, donne, bambini, anziani in cerca di futuro e di pace.

La migrazione era già una realtà dipinta da numerosi artisti italiani di fine Ottocento. Negli ultimi decenni del XIX secolo, il Verismo, infatti, documentò le disuguaglianze e le miserie dell’Italia post unitaria attraverso vere e proprie opere di denuncia sociale. È in questo contesto che la pittura italiana venne a contatto con l’emigrazione.

Il pittore Angiolo Tommasi nel dipinto Gli emigranti ha rappresentato le paure e le speranze di tanti nostri connazionali. Tommasi dipinge un porto e l’attesa di una folla in partenza per l’oltreoceano. Sul fondo le navi: un futuro sospeso, irraggiungibile. In primo piano, contadini, commercianti, artigiani. Volti scavati dalla fame su una banchina gremita. Alcuni uomini hanno già voltato le spalle al passato, altri non riescono ancora a guardare oltre il mare, al futuro. L’autore traduce i sentimenti di questa folla in quattro icone tipologiche: una donna pensierosa sorregge il capo con la sua mano, un’altra allatta il proprio bambino, un’altra ancora si accarezza il ventre, un’anziana signora fissa la corona del rosario che scivola fra le sue dita. Nei volti di queste donne sono presenti i dubbi e le domande di tutti. Precarietà, speranza, fame, passato e futuro, tutto è ritratto in questa attesa. La moltitudine di barche a vela e la folla di emigranti bene esprimono, nel dipinto, la vastità del fenomeno migratorio dall’Italia del secondo Ottocento: intere famiglie o gruppi di uomini, umile gente macerata da una vita di stenti, con la malinconia sul viso e la speranza nel cuore, si apprestano al grande viaggio che durava almeno 15 giorni in condizioni molto disagiate, se non inumane.

Accanto a queste grandi narrazioni, c’è chi ha voluto ritrarre l’ultimo saluto sulla banchina, il bacio dei figli ad un padre in partenza, il distacco e la solitudine che irrompe al momento dL’artista in Emigranti riproduce lo stesso soggetto di Tommasi, la partenza, in un momento identico, l’attesa dell’imbarco, ma rappresenta tutto ciò in modo diverso. La partenza è vissuta come distacco, solitudine, dolore, una vicenda personale e familiare. La famiglia è al centro del quadro, l’uomo ha in braccio una bambina e la sta baciando, un’altra è aggrappata alla giacca; le due donne di spalle con il viso nascosto, il capo chino sembrano osservare e con il loro dolore tenuto a freno davanti alle bambine.ell’addio, tra questi Raffaello Gambogi.

La riflessione e la sua messa in opera deriva con ogni probabilità dalla vita stessa di Catalano, un marinaio francese che ha iniziato a lavorare il bronzo all’età di trenta anni. Nato nel 1960 nel sud della Francia, Catalano ha vissuto fino a 12 anni in Marocco e ha poi fatto il marinaio. Dice l‘artista: “Proveniente dal Marocco anche io ho viaggiato con valigie piene di ricordi che rappresento così spesso nei miei lavori. Non contengono solo immagini ma anche vissuto, i miei desideri: le mie origini in movimento”. Da qui la sua evidente attenzione per il tema del viaggio, dei viaggiatori, del significato simbolico ed intrinseco del viaggio, inteso come arricchimento e come perdita. Nessun arrivo, nessuna partenza può dirsi realmente completa. Il viaggio dei migranti è sempre doloroso e Catalano lo ‘fotografa’ nel suo svolgersi. La decisa mancanza di volume invita lo spettatore alternativamente a perdersi nello sfondo o a completare il disegno. Ma il vuoto è proprio lì, all’altezza degli organi vitali e bisogna imparare a conviverci.

Sono molti gli artisti che a causa di guerre e persecuzioni hanno dovuto lasciare il proprio paese per cercare protezione in un paese straniero e che hanno raccontato il mondo dei migranti a partire dalla propria esperienza personale, tra questi Adrian Paci e Rabee Kiwan. Mondi lontani, biografie diverse, l’uno albanese l’altro siriano.

Adrian Paci: Moments of Transition from Louisiana Channel on Vimeo.

Nel video Centro di Permanenza Temporanea, un gruppo di persone attraversa lentamente la pista d’atterraggio di un aeroporto per salire sulla scaletta che conduce all’ingresso dell’aereo. La telecamera inquadra in successione i passi e i volti di questa processione fatta di uomini e donne. Indifferenza, attesa, preoccupazione sono le emozioni che li accompagnano. Dietro di loro il nulla. Che cosa guardano? Dove sono diretti? L’opera di Paci, lascia spazio a più interpretazioni, e racconta i sentimenti e il destino di molti migranti per i quali un approdo non c’è.

Molto simile all’esperienza del viaggio bloccato, dell’itinerario spezzato è il lavoro della fotografa e artista iraniana Gohar Dashti, che ha vissuto ancora bambina l’esperienza della guerra durante il conflitto Iran-Iraq, 1980-1988. In Iran, Untitled, attraverso le sue foto fornisce un delicato sguardo sulla vita che scorre alla periferia di Mashhad, a mille chilometri da Teheran. La vita nelle sue opere si trasforma in arte e racconta la vulnerabilità degli sfollati a causa delle guerre, di coloro che sono in transito in un non luogo, come il deserto.

L’artista siriano Rabee Kiwan di fronte all’esodo dei suoi connazionali (lui stesso si è rifugiato in Libano) riflette sull’identità personale e su quella di un popolo, come il suo, che subisce la guerra. In Passport photo l’artista dipinge una serie di fototessere e di timbri ricostruendo così il particolare rapporto che ogni rifugiato ha con i propri documenti.

Ritratti anonimi, sfigurati, simili a passaporti sgualciti. Le fototessere sui documenti, sui passaporti rivelano un duplice messaggio: sono quello che ci identifica nei confronti degli altri e senza i quali non esistiamo, lo scriveva Joseph Roth negli anni trenta, e allo stesso tempo sono ciò che testimonia un’appartenenza collettiva ad un popolo, ad una nazione. Senza non si è nessuno e non si appartiene a nessun Paese, nessuna terra.

Ai Weiwei, uno degli artisti più globali e mediatici del terzo millennio, dal 2015 ha deciso di mettere la sua arte a servizio dei rifugiati, affrontando in vario modo il difficile tema del dramma dei migranti forzati. Ha avuto rapporti controversi con il suo Paese, la Cina, dove è stato anche in prigione per 81 giorni, nonostante ormai gli sia permesso girare in ogni angolo del mondo è costantemente tenuto sotto osservazione. Le sue opere hanno un chiaro carattere di denuncia di quanto milioni di persone stanno vivendo nel mondo.

A Praga nel 2016, in occasione di una sua esposizione, ha deciso di coprire alcune sue statue con i teli termici utilizzati dai migranti per attirare l’attenzione sulla loro condizione. A tal proposito dice: “Ho voluto metterle sulle mie statue per protestare contro il fatto che l’umanità sta scomparendo dai nostri cuori”.

Ai Weiwei ama stupire, interrogare, lo ha fatto anche alla Konzerthaus di Berlino dove 14 mila giubbotti di salvataggio ricoprivano le imponenti colonne e campeggiava un grande manifesto con l’hashtag #SafePassage. Un appello per l’apertura di corridoi umanitari che permettano di evitare le stragi nel Mediterraneo. Una sorta di “memoriale” temporaneo dedicato ai migranti e ai rifugiati.

A Firenze ha proposto un allestimento clamoroso di Palazzo Strozzi, uno dei più bei palazzi del Rinascimento, appendendo sulla facciata 22 canotti di salvataggio, a copertura delle finestre del primo piano. L’opera si intitola Reframe, cioè “nuova cornice”. “Non è una provocazione ma un invito ad un altro modo di sentire l’umanità” ha detto l’artista.

Nel 2017 è stata inaugurata a Palermo Odyssey, un’installazione che nasce da un progetto di ricerca sui rifugiati e sui campi profughi nel mondo, che mira all’analisi della cornice storica, politica e sociale in cui la “crisi dei rifugiati” si sviluppa.

Si tratta di un “floorpaper” che copre i circa 1000 mq dello spazio espositivo composto da un intreccio di immagini organizzato in una lunga e ininterrotta serie di illustrazioni stilizzate in bianco e nero che rappresentano scene di militarizzazione, migrazione, fuga e distruzioneHa spiegato l’artista: “Io e il mio team abbiamo analizzato a fondo il tema della crisi dei rifugiati, siamo partiti dallo studio dei primi spostamenti di massa degli esseri umani, che risalgono al Vecchio Testamento. L’utilizzo della carta da parati è direttamente collegato al desiderio di trovare un linguaggio visivo che tragga ispirazione dai disegni, dalle incisioni, dalle ceramiche e ai dipinti murali delle antiche civiltà greche ed egizie. Per rendere evidente la contemporaneità della crisi, abbiamo integrato questo bagaglio iconografico con immagini tratte dai social media e da Internet, insieme ad immagini da me raccolte. Abbiamo anche esaminato la letteratura e le condizioni politiche dei vari contesti. Il disegno della carta da parati include sei temi: la guerra, le rovine della guerra, il viaggio dei rifugiati, la traversata del mare, i campi dei profughi, le manifestazioni e le proteste”.

Nello stesso anno, ha presentato alla 74° Mostra del Cinema di Venezia il suo documentario Human Flow realizzato durante le sue visite ai campi profughi sull’isola greca di Lesbo, o al confine tra Grecia e Macedonia (Former Yugoslav Republic of Macedonia – FYROM, ora Macedonia del Nord).

Qualche mese dopo, Law of the Journey, la realizzazione della grande installazione gonfiabile, è invece l’affermazione epica e multiforme di Ai Weiwei sulla condizione umana: l’espressione ingigantita dell’empatia e dell’urgenza morale dell’artista di fronte a ciò che considera continui e incontrollati massacri.

Ospitato in un edificio dalla forte carica storica, l’ex Palazzo della Fiera di Praga che dal 1939 al 1941 servì da punto di raccolta per gli ebrei prima della loro deportazione nel campo di concentramento di Terezín, funziona anche come una parabola site-specific. Anche il luogo che ospita l’opera diventa infatti il simbolo di un potere trasgressivo dell’esperienza catartica, ma anche una retorica del fallimento, del paradosso e della rassegnazione.

Come l’Arca di Noè, il gigantesco battello di gomma nera di Ai Weiwei è un vero e proprio raccoglitore di un esodo forzato che finisce a galleggiare senza meta nell’immenso spazio della sala post-industriale della Galleria della ex Fiera di Praga.

Un altro noto artista è intervenuto con il proprio lavoro, sulla questione del trattamento riservato ai rifugiati e sulla loro gestione da parte delle istituzioni europee. Si tratta di Banksy, writer dall’identità sconosciuta, che fa dei suoi murales e della sua street art uno strumento di dissenso, protesta e denuncia sociale.

Tra le sue opere più note quella che ritrae Steve Jobs, ideatore della Apple, su un muro del campo profughi di Calais, porto francese nel nord posto sul canale della Manica. In questo modo l’artista ha voluto esprimere il proprio sostegno nei confronti dei migranti. L’artista ha spiegato in un comunicato stampa: “Siamo portati a pensare che l’immigrazione dreni le risorse di un Paese e invece Steve Jobs era il figlio di un migrante siriano”. Apple è l’azienda con più profitti al mondo, paga circa sette miliardi di dollari all’anno di tasse ed esiste unicamente perché hanno accolto un giovane uomo da Homs“.

Sempre a Calais sono presenti altri tre murales in cui l’artista rappresenta il dramma dei migranti. Nel dicembre del 2015 di fronte a una spiaggia di Calais, Banksy ha realizzato uno stencil che raffigura un bambino con una valigia, che guarda in direzione dell’Inghilterra con un cannocchiale sul quale è appollaiato un avvoltoio.

Una delle sue opere più interessanti, posta accanto all’ambasciata francese di Londra, rappresenta una giovane donna in lacrime – probabilmente Cosette, un personaggio de I miserabili di Victor Hugo – con ai piedi una latta di gas lacrimogeno, e alle spalle la bandiera francese. Il murales è una critica aperta al trattamento riservato ai migranti nel campo profughi di Calais, nel nord della Francia sul canale della Manica, davanti alla costa inglese. La notte tra il 5 e il 6 gennaio del 2016, nel tentativo di demolire una parte della baraccopoli, soprannominata “The Jungle” (la giungla) per le condizioni in cui i migranti sono costretti a vivere, sarebbero stati usati anche gas lacrimogeni. La particolarità dell’opera sta nella sua interattività: grazie alla presenza dello stencil di un QR Code chiunque di trovi a passare in quella zona può vedere il video di quanto accaduto quella notte avvicinando il proprio smartphone.

Sempre nei pressi del porto della cittadina francese ha invece dipinto una versione moderna de La zattera della Medusa di Théodore Géricault, un dipinto del Settecento. ll quadro, a cui l’opera si ispira, rappresenta il naufragio della nave francese Méduse, avvenuto nel 1816 davanti alle coste dell’attuale Mauritania, una tragedia che ebbe grande risonanza internazionale. Nella versione di Banksy, sullo sfondo, si intravede il profilo di una moderna nave. Rispetto all’originale Banksy rovescia la scena in modo che lo spettatore possa trovarsi sulla zattera, in mezzo tra coloro che cercano soccorso. Un’opera che vuole far riflettere ancora una volta sul dramma della migrazione e sulle migliaia di morti in mare. 

Dopo il riaccendersi del conflitto in Ucraina il 24 febbraio 2022 e la conseguente distruzione e ondata migratoria causata dalla guerra, Banksy, a sostegno della popolazione ucraina, ha voluto creare dei murales sui muri ridotti in macerie della città di Borodyanka, a 50 Km da Kiev, in cui sono avvenuti numerosi bombardamenti dall’inizio del conflitto. Di queste cinque opere, tuttavia, solo una è stata rivendicata ufficialmente da Bansky tramite un post sul suo profilo Instagram. Il murale in questione ritrae una ragazza intenta in una verticale e in equilibrio su delle macerie di uno dei tanti palazzi distrutti dai bombardamenti. L’immagine vuole mettere in risalto il netto contrasto che sussiste tra la serenità di scena di vita quotidiana legata ad una dimensione ludica e un’ambientazione degradante dovuta alla distruzione della guerra.

Nel marzo del 2022 è stata messa all’asta un’opera che il noto street artist aveva realizzato nel 2005, “CND Soldiers” in cui vengono raffigurati due soldati intenti a dipingere con il colore rosso il simbolo di pace mentre impugnano tra le mani delle armi. L’opera, che denuncia la decisione del Parlamento inglese di prendere parte all’operazione militare in Iraq nel 2005, è stata venduta nel 2022 e il ricavato di 81.000 sterline è stato interamente devoluto, per volere dell’artista, ad un ospedale pediatrico situato a Kiev.

 

I muri possono diventare una tela, uno spazio aperto al mondo, persino un luogo in cui si rappresenta insieme l’ideale di un futuro comune. Alcune opere di street art ne sono un’efficace dimostrazione. Sono il frutto di incontri veri tra persone, che hanno generato consapevolezza, partecipazione, am soprattutto bellezza.

È il caso delle opere di Sibomana, nome d’arte di Antoine Durieux, artista italo-belga, cresciuto in Congo e in Ruanda.

Dopo un intenso incontro con i rifugiati eritrei, etiopi e congolesi del centro Baobab di Roma, ha scelto di raccontarne le storie nel progetto “Waves of the heroes”, lungo le rotte della migrazione in Europa (Istanbul, Lesbo, Atene, Berlino).

La mostra “I bambini del mare/children of the sea” ha invece come protagonisti i volti di dieci bambini ospitati in un centro di accoglienza della periferia di Roma. “Piano piano abbiamo preso confidenza, poi un giorno ho portato la macchina fotografica e abbiamo scattato foto per un pomeriggio intero, tutti insieme”, racconta Sibomana. “Volevo creare un qualcosa di bello e non triste, perché loro erano felici, e volevo mostrare quella positività, quella felicità nonostante tutto ciò che hanno passato”.

Le sue opere mettono insieme fotografie in bianco e nero con colori accesi, il dramma della migrazione con la forza della speranza e del futuro.

Girando per Roma è facile inbattersi in alcune sue opere, come quelle al museo dei bambini “Explora”. Tra queste il volto in bianco e nero di un bambino che scruta l’orizzonte e il mare che lo circonda, un mare mosso fatto di geometriche pennellate colorate.

L’immagine è anche sulla copertina del cd Yayla – Musiche ospitali, realizzato dal Centro Astalli in collaborazione con Appaloosa Records. Sibomana ha voluto regalare al Centro Astalli anche altre sue opere: due in particolare che campaggiano sui muri del centro per l’accoglienza e l’inclusione Matteo Ricci.

Sibomana – BETHLEHEM – Centro Matteo Ricci, 2018

Quest’ultima immagine è stata scelta come copertina del triplo CD realizzato dal Centro Astalli in collaborazione con Appaloosa Records (distribuzione esclusiva I.R.D.) dal titolo “Shahida – Tracce di libertà”, dedicato a tutte le donne che in questo momento si battono per la libertà, rischiando la vita in una piazza che protesta, pronunciando pubblicamente parole censurate, chiedendo uguaglianza e dignità, e di tutte le donne migranti, rifugiate, che camminano lasciando tracce di libertà nel mondo.

Sibomana – “Fly beyond borders”  Nasrin – Centro Matteo Ricci, 2018

Un’intervista a Sibomana

Un altro artista che attraverso le sue opere ha voluto raccontare il dramma dell’esilio e della migrazione forzata è Safet Zec, un artista bosniaco scappato da Sarajevo dalla guerra in Bosnia con moglie e figli e rifugiatosi a Venezia trenta anni fa. Protagonista del movimento denominato «realismo poetico», la sua capacità di rileggere e concretizzare il fenomeno migratorio è particolarmente potente. Il ciclo pittorico “Exodus” ne è la dimostrazione: realizzato nel 2017, è composto da ampie tele create con tecnica mista, in cui fogli di giornale si impastano all’o­lio della tempera e al collage, racconta l’esodo dei migranti in Europa. Gli sguardi pieni di dolore negli occhi di donne, uomini e bambini, la tragedia del piccolo Aylan, il bimbo di quattro anni ritrovato senza vita sulle coste greche, un barcone colmo di persone che tendono la mano in cerca di aiuto, sono questi alcuni dei soggetti interpretati dall’artista.

«Certi pezzi di tela sono dentro di noi, ogni ar­tista accede a ciò che si porta den­tro. Non potevo che usare gli unici mezzi che conoscevo per racconta­re gli orrori della guerra. In questo periodo sono nati i corpi feriti, gli abbracci», ha detto Zec.

“Nelle tele di Zec, a poppa, si osservano i bambini difesi dall’abbraccio dei genitori; le robuste mani degli uomini sorreggono, come corpi morti, la fragile esistenza dei propri figli: il proprio futuro. In primo piano sono rappresentati corpi stesi, sfiniti, avvolti in bianche vesti, come sudari. I volti visibili dei bambini sono spenti, lo sguardo perso nel vuoto. Al centro dell’opera, una forte luce bianca illumina il corpo di una bambina, con gli occhi chiusi, adagiata tra le ginocchia del padre, le cui mani dolcemente sfiorano quelle piccole di lei. A fianco si trova un’altra bambina, seduta, sul cui grembo è posto un pane, simbolo non solo dell’alimento necessario, ma anche del senso della durezza della vita, delle asperità. Per il cristiano, inoltre, esso evoca il pane spezzato di Cristo, umile tra gli umili, quel pane eucaristico che trasforma la vita e rende misericordiosi.” (La Civiltà Cattolica, «EXODUS»: L’EPOPEA DEI MIGRANTI NELLA PITTURA DI SAFET ZEC, Claudio Zonta, Quaderno 4057, pag. 88 – 92, Anno 2019, Volume III)

Il 17 maggio 2019, l’organizzazione “Seebrücke”, che si adopera per la depenalizzazione del soccorso in mare nel Mediterraneo, ha organizzato un vero e proprio atto di protesta contro le ingiustizie che le politiche europee stanno riservando ai migranti. Gli attivisti hanno vestito uno dei tre uomini del monumento “Molecule Man”, creato nel maggio 1999 dallo scultore americano Jonathan Borofsky a Berlimo, con un giubbetto di salvataggio; a un altro è stata posta sugli occhi una benda nera con la scritta #wakEUp. Mentre una barca, passando di fianco al monumento, mostrava lo striscione “5 anni 18,248+? vite spezzate”.

Il gesto degli attivisti dell’organizzazione nata nel 2018, messo in atto una settimana prima delle elezioni europee, voleva essere un simbolo di solidarietà per tutti coloro che, nel tentativo di fuggire dal proprio paese, hanno dovuto affrontare un viaggio pericoloso e per chi purtroppo non ce l’ha fatta.

Anche in questo caso, l’opera d’arte scelta per ospitare questa iniziativa è simbolica. Infatti, Ii “Molecule Man”, una scultura alta 30 metri, vuole ricordare che «sia l’uomo che le molecole esistono in un mondo di probabilità, e che l’obiettivo di tutte le tradizioni creative e spirituali è quello di trovare la totalità e l’unità nel mondo» – queste le parole dell’artista. Un monumento, dunque, che vuole risvegliare le coscienze degli Stati membri europei nei confronti di chi è al momento il più debole: «In Europa, i diritti umani stanno annegando nel Mediterraneo. Finché l’Unione Europea continuerà a guardare dall’altra parte, riteniamo che la disobbedienza sia l’unico modo per attirare l’attenzione. Specialmente ora, poco prima delle elezioni europee», hanno dichiarato gli attivisti in un comunicato.

Nel febbraio 2021, la street artist romana Laika MCMLIV (1954 in numeri romani) si è recata al confine tra Bosnia e Croazia, nelle località di Lipa, Bihac e Velika Kladusa, nel Cantone dell’Una Sana – luoghi della Rotta Balcanica – per denunciare, attraverso una nuova serie di poster, le condizioni cui versano i migranti che attraversano la rotta per raggiungere i confini dell’Unione Europea. La rotta balcanica, che parte dalla Turchia, attraversa i Paesi della ex Jugoslavia e termina, solitamente, in Germania, è impervia, piena di ostacoli spesso mortali, tanto da spingere i migranti a chiamare il suo attraversamento “the game”: espressione ripresa dall’artista in un poster dove una bambina salta una corda di filo spinato. Le altre tre scene rappresentano un uomo di spalle con la schiena sfregiata dalle botte della polizia di frontiera, le cui cicatrici formano le lettere EU; un bambino con le lacrime congelate e una donna che chiede aiuto alla Von der Leyen che però sembra non ascoltare.

La serie di poster è stata affissa in alcuni luoghi simbolici per la vita dei migranti come i rifugi di fortuna, i boschi di frontiera, il campo di Lipa e il campo Miral. Le opere di Laika vogliono essere un monito all’Unione Europea: “accogliere queste persone e garantire loro delle condizioni di vita umane, punire e fermare la violenza di quegli stati europei che si accaniscono sui loro corpi e, soprattutto, stroncare la rete del traffico di esseri umani”. “Noi cittadini europei non possiamo accettare che questa violazione dei diritti umani accada deliberatamente” dice l’artista.

Tra gli altri interventi della street artist romana ricordiamo il poster apparso a Roma, vicino l’ambasciata d’Egitto, nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 2020 con Giulio Regeni che abbraccia Patrick Zaki alle spalle e lo rassicura.

A giugno 2020, sempre a Roma, su un muro di viale Regina Elena, Laika ha realizzato la sua opera dal titolo Wall of Shame: uno striscione di 10 metri composto da decine di commenti razzisti presi dai social, completati dai nomi e cognomi degli autori.

Il mese successivo, l’artista ha realizzato un’opera nel quartiere San Paolo, sul muro del Mercato Ostiense, in memoria di Soumaila Sakho, un bracciante ucciso a colpi di fucile nella piana di Gioia Tauro il 2 giugno 2018. Nell’opera (“18/20 luglio 2020”) il ragazzo tiene in mano un pomodoro da cui cola del sangue lungo il suo braccio, i pugni sono chiusi e sullo sfondo si legge “Justice”: un grido di rivolta e denuncia.

Jean-David Nkot, artista del Camerun, elabora una mappatura realistica ed errante di tutti questi esseri umani portati verso l’ignoto dalle drammatiche situazioni nelle loro terre native. Attinge al ricordo di queste persone sradicate per costruire un’opera potente, piena di emozioni e non senza poesia per rendere omaggio a loro e testimoniare. Dando un volto a tutte queste persone esiliate, ripristina la loro dignità e ci ricorda che la storia del mondo è stata fatta di esiliati, migrazioni, tragedie, sofferenze ma anche di speranza.

La sua pittura porta con sé alcune domande sulle nostre società, sulle loro capacità di risolvere i conflitti, di affrontare le sfide ambientali ed economiche. Questo impegno artistico dà vita a suggestivi dipinti che pongono l’umanità al centro delle sue scelte estetiche. Il tema del viaggio, della migrazione emerge prepotentemente nelle opere di Ali Hassoun, pittore libanese, nato a Sidone e trasferitosi in Italia per studiare all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Il viaggio secondo l’artista diviene uno strumento per esplorare esperienze e visioni eterogenee. L’incontro di culture e mondi diversi rappresenta un’occasione per creare ponti che mettono in relazione differenti paesaggi, oriente e occidente in un gioco di colori e sfumature che lascia incantati.

L’artista si fa interprete di culture diverse ma confrontabili che convivono nello stesso spazio perfettamente orchestrato tra figure e sfondo. Molteplici sono le citazioni presenti nelle sue opere: dai simboli social alle varie correnti artistiche, dal cubismo alla pop art fino ad arrivare alla mitologia.

JAGO, pseudonimo di Jacopo Cardillo, è un giovane artista e scultore che nasce a Frosinone nel 1987 dove ha frequentato l’Accademia di Belle Arti. Tra le sue sculture in marmo più celebri ricordiamo: Habemus Hominem, Venere, Figlio velato, Pietà, Apparato circolatorio, The First Baby. Il giovane artista, per scolpire le sue opere, si lascia ispirare dalla contemporaneità e dalle tematiche del tempo in cui vive. “Mi considero un uomo e uno scultore del mio tempo. Utilizzo il marmo come materiale nobile legato alla tradizione, ma tratto temi fondamentali dell’epoca in cui vivo. Il legame con il mondo è fortissimo. Guardo a ciò che mi circonda, gli do forma e lo condivido.” dice.

Tra le caratteristiche peculiari delle sue sculture vi è la sorprendente capacità di riprodurre con accuratezza i dettagli del corpo umano. La corporeità diviene così la protagonista delle sue opere che incantano per la verosimiglianza e l’impatto emotivo che suscitano nel guardarle. La corporeità scolpita da Jago ha la capacità di riprodurre le emozioni umane che non vivono sulla carne, ma sulla pietra. I volti dei soggetti scolpiti sono infatti densi di emozione in ogni loro dettaglio e portano chi le osserva a immedesimarsi empaticamente nella scultura.

Nell’opera La pietà, lo scultore, ispirandosi alla celeberrima opera di Michelangelo, raffigura un padre profondamente addolorato con in braccio il figlio ormai esanime. L’opera è dedicata all’immane tragedia della guerra in Siria. L’immenso dolore del padre lo si ritrova in ogni vivida ruga del suo volto fatto di pietra e scolpito con incredibile precisione da parte dell’artista intento a voler comunicare il totale crollo emotivo di chi ormai ha perso ogni cosa.

L’opera di Jago intitolata Marmo Italiano è una scultura è realizzata in marmo nero e raffigura un migrante, un giovane ragazzo disteso a terra su un fianco. La statua è stata installata sulla Ocean Viking ed ha partecipato alla missione di salvataggio che la nave di SOS Mediterranee ha condotto nello scorso giugno, durante la quale sono state tratte in salvo 306 persone.

L’opera vuole ricordare le migliaia di persone che hanno perso la vita nel Mediterraneo negli ultimi anni, raccontando, tramite il linguaggio artistico, le sofferenze che uomini, donne e bambini vivono in Libia e quelle che incontrano in Europa.

L’artista ha voluto focalizzare l’attenzione sulla tematica dell’accoglienza, ponendo l’accento sulle sofferenze di tutti coloro che sono costretti a fuggire dalla propria terra nella speranza di un nuovo inizio.

L’opera è stata esposta dal 1 al 4 agosto 2022 allo stadio Olimpico di Roma all’interno del percorso di visita dello stadio. La statua di marmo nero ha proseguito il suo viaggio sul ponte di Castel Sant’Angelo. La scelta del luogo non è casuale: la statua del giovane migrante si trova infatti nel crocevia tra la Basilica di San Pietro e l’antica prigione di Castel Sant’Angelo. L’artista ha cambiato il nome alla sua opera che ora s’intitola In Flagella Paratus Sum – Sono pronto al flagello. L’opera sarà venduta all’asta e il ricavato verrà donato interamente ad un’associazione che offre aiuto ai migranti forzati.

Francesco Malavolta è un fotogiornalista, impegnato da vent’anni nella documentazione dei flussi migratori che interessano l’Europa. Il suo è un lavoro svolto in un contesto spazio-temporale in costante mutamento che lo ha portato a viaggiare lungo i confini di un continente sempre più blindato e a navigare nei suoi mari sempre più spesso teatro di morte. Le sue foto testimoniano le storie e i volti di quanti in fuga da guerre e persecuzioni, cercano salvezza in Europa.

Foto di Francesco Malavolta
Una nave della marina Militare Italiana approda, nel luglio 2014, nel porto di Pozzallo con 553 persone tratte in salvo nei giorni precedenti nel Mediterraneo. 45 persone furono ritrovate prive di vita per asfissia nella stiva dello stesso barcone che le trasportava.

Amico del Centro Astalli, Francesco Malavolta ha realizzato venti ritratti di rifugiati accolti per i 40 anni di attività del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati in Italia. ne è nata la mostra fotografica Volti al futuro.

Un’altra artista che attraverso le sue opere ha voluto denunciare la drammatica situazione di chi ogni giorno si vede negati i diritti umani e in particolare i diritti delle donne è Shamsia Hassani, la prima street artist afgana che raffigura sui muri delle città del suo Paese figure di donne con gli occhi chiusi e senza la bocca. Le donne raffigurate dall’artista sono private della loro libertà di espressione e non riescono a vedere il loro futuro, o cercano di sognarne uno diverso. Shamsia Hassani ha studiato arti visive a Kabul e ha insegnato all’Università della capitale fino all’arrivo dei Talebani nel 2021. Le sue opere denunciano la drammatica situazione delle donne in Afghanistan e la sistematica violazione dei diritti umani nei loro confronti da parte del regime. Nei suoi murales vengono utilizzati colori vivaci e luminosi con il fine di trasmettere un po’ di speranza in un Paese devastato dalla guerra. I suoi murales vengono costantemente cancellati dalle autorità, ma l’artista continua a postare la sua arte sui social, mettendo a rischio, ogni giorno, la sua vita.

Un’altra preziosa testimonianza femminile è Zehra Doğan, artista e giornalista curda con cittadinanza turca. È stata arrestata e accusata di terrorismo per aver postato online un suo dipinto in cui raffigurava la distruzione della città di Nusaybin durante gli scontri tra le forze di sicurezza e gli insorti curdi. Il suo arresto non ha fermato l’artista che ha continuato a realizzare di nascosto disegni e dipinti con materiali di fortuna reperiti durante la prigionia. Al posto delle tele utilizzò lenzuola, federe, pagine di vecchi giornali, il retro delle lettere che riceveva dalla sua famiglia e come colori utilizzò curcuma, cenere di sigaretta e caffè. Con le ciocche dei propri capelli realizzò i pennelli che utilizzava per dipingere. “Forse non sarò mai liberata, siamo in Turchia dopotutto. Ma so che distruggerò le prigioni con la mia penna e il mio pennello”.