Fondata come città-porto dai Fenici intorno al 734 a.C., Palermo è un’affascinante mescolanza di culture che convivono da secoli, densa di suggestioni e disseminata di luoghi unici.

La sua storia millenaria le ha regalato un notevole patrimonio artistico ed architettonico che spazia dai resti delle mura puniche per giungere a ville in stile liberty, passando dalle residenze in stile arabo-normanno, alle chiese barocche e ai teatri neoclassici.

Non si deve immaginare però la città come un museo a cielo aperto: tutt’altro. Le sue piazze, i vicoli del centro storico e i celebri mercati pulsano di vita e di esperienze. La vocazione multietnica e multiculturale della città continua anche oggi grazie alla presenza di numerosi e vivaci comunità straniere. I circa tremila tamil di Palermo (la comunità più grande d’Italia) vivono per lo più nel centro storico, dove si mescolano a musulmani provenienti da mezzo Mediterraneo e al popolo palermitano di Ballarò, del Capo e della Vucciria. Molti tamil sono di religione induista e, presenti in città fin dagli anni Ottanta, sono ormai parte integrante della comunità cittadina: tra l’altro partecipano regolarmente alle festività di Santa Rosalia, in un curioso esempio di dialogo interreligioso “dal basso”.

 Quattro passi nella storia

La Cappella Palatina nel Palazzo dei Normanni

Il Palazzo reale dei Normanni sorge nella posizione più elevata dell’antico nucleo cittadino, proprio sopra i primi insediamenti punici. La prima costruzione, il Qasr (“Palazzo” o “Castello” in lingua araba), è attribuita al periodo della dominazione araba della Sicilia (IX secolo). I sovrani normanni trasformarono il precedente edificio arabo in un centro complesso e polifunzionale che doveva esprimere tutta la potenza della monarchia.

La Cappella Palatina si trova al primo piano del Palazzo dei Normanni e rappresenta l’esempio più elevato dal punto di vista storico-artistico, della convivenza tra culture, religioni e modi di pensare, poiché nella sua realizzazione furono coinvolte maestranze bizantine, musulmane e latine. La cupola, il transetto e le absidi sono interamente decorate nella parte superiore da mosaici bizantini, tra i più importanti della Sicilia, raffiguranti il Cristo Pantocratore benedicente, gli evangelisti e varie scene bibliche. Il soffitto in legno della navata centrale e le travature delle altre navate sono decorate con intagli e dipinti di stile arabo. In ogni spicchio si snodano raffigurazioni profane attinenti alla vita di corte: bevitori, danzatrici, musici, giocatori di scacchi, cammelli convivono con i contenuti della storia sacra dei mosaici sottostanti.

Una curiosità: un’iscrizione trilingue (latina, greca e araba) ricorda l’orologio fatto costruire da Ruggero II nel 1142, data espressa secondo le datazioni latina, bizantina e musulmana. Un particolare che denota un profondo rispetto per la differenza culturale.

La cattedrale di Palermo

Eretta nel 1184 sull’area della prima basilica che gli arabi avevano trasformato in moschea, ha subito nel corso dei secoli vari rimaneggiamenti.

All’interno si trova anche il sarcofago di Federico II di Svevia, un personaggio decisivo per la storia della città e di tutta l’Italia meridionale: dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l’attenzione degli storici e del popolo, il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa e innovazione artistica e culturale, volte ad unificare le terre e i popoli. Egli stesso fu un apprezzabile letterato, convinto protettore di artisti e studiosi. La sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, araba ed ebraica.

La Chiesa della Martorana

La Chiesa di S. Maria dell’Ammiraglio o San Nicolò dei Greci, più comunemente nota come Chiesa della Martorana, fa parte dell’Eparchia di Piana degli Albanesi, diocesi di rito greco-bizantino della Chiesa Bizantina in Sicilia.

È testimonianza della cultura religiosa e artistica del cristianesimo orientale presente ancora oggi in Italia, ulteriormente alimentata dagli esuli albanesi rifugiatisi in Sicilia tra il XV e il XVIII secolo sotto l’incalzare delle persecuzioni turche nei Balcani. La comunità appartiene oggi alla Chiesa Cattolica, ma segue il rito e le tradizioni spirituali che la accomunano in gran parte alla Chiesa Orientale ortodossa. Quest’ultimo influsso ha lasciato notevoli tracce nella tradizione della pittura delle icone, nel rito religioso, nella lingua, nei costumi tradizionali proprie di alcune comunità albanesi nella provincia di Palermo. Ancora oggi la Chiesa è il punto di riferimento per più di 15.000 fedeli albanesi d’Italia di rito greco-bizantino residenti nella città di Palermo, oltre che per i nuovi fedeli di rito bizantino provenienti dall’est europeo e dai Balcani.

Fondata nel 1143 per volere di Giorgio d’Antiochia, il grande ammiraglio siriaco al servizio del re normanno Ruggero II dal 1108 al 1151, vi si può ammirare il ciclo di mosaici bizantini più antico di tutta la Sicilia. Si racconta che quando nel giugno 1537 Carlo V visitò Palermo, voleva visitare il giardino della Chiesa, noto per i suoi alberi di aranci. Poiché però era luglio e sugli alberi non c’erano frutti, le monache dell’adiacente convento – che aveva preso nome dalla sua fondatrice, la nobildonna Eloisa Martorana – fecero delle arance di pasta di mandorle e le colorarono, per dare al giardino un effetto più vistoso e bello. Inventarono così la “frutta di Martorana“, che veniva tradizionalmente preparata per la Festa dei Morti ed oggi è famosa in tutto il mondo.

Il vicolo “meschita”

Tra il Ponticello, la Via Calderai e la via del Giardinaccio, sorgeva il quartiere della “Giudecca.

Abitato da ebrei, era uno dei sottoquartieri del “borgo” (rabat) arabo ed aveva il suo centro in una “Sinagoga”, detta volgarmente “Meschita” esistente fino alla cacciata degli ebrei nel 1492. Il Vicolo Meschita è il luogo dove si conserva il ricordo della presenza della comunità ebraica, che visse in mezzo ai cristiani, sia pure con l’obbligo di contraddistinguersi con una “rotella rossa” di piccole dimensioni che attaccavano ai loro indumenti.

Nel 1172 Palermo, stando alle informazioni del viaggiatore ebreo Beniamino da Tudela, contava già ottomila ebrei residenti, molti dei quali, ricchi e influenti, erano occupati nell’industria della seta ed in quella della pesca e possedevano interi edifici. Nei periodi arabo, normanno e svevo, essi conobbero una relativa prosperità e il loro numero aumentò. Si presume che nel 1492 gli ebrei in Sicilia fossero circa 30.000, quasi il 5% della popolazione totale, allora composta da circa 600.000 abitanti.

Il santuario di Monte Pellegrino

La Festa più importante per i palermitani, il Festino di Santa Rosalia, si celebra il 15 Luglio. La devozione che la “Santuzza” ispira nei palermitani è tale che le è riservata un’altra importante festa per la data che ricorda la sua morte (il 4 Settembre del 1160): “il viaggio” o “l’acchianata” (salita) al santuario di Monte Pellegrino, il bellissimo promontorio sul golfo di Palermo – che gli arabi chiamavano Gebel Grin – dove, nel 1625, furono trovati i suoi resti. Poco dopo, il Senato palermitano decise la costruzione di un santuario e nel 1629 venne inaugurata la Chiesa.                              L’ acchianata al santuario avveniva e avviene ancora oggi la notte tra il 3 e il 4 settembre per celebrare “l’ascesa al cielo” di Santa Rosalia. Era un vero pellegrinaggio dove, come in altri momenti di religiosità popolare, si mischiava il sacro al profano.

Il Santuario di Santa Rosalia è un luogo molto suggestivo. La facciata seicentesca è addossata alla roccia, poichè la Chiesa è realizzata all’interno della grotta. Vi è uno spazio adibito all’esposizione di tutti i doni fatti dagli ex voto, e poi una cancellata da cui si entra nella grotta. Tutte le pareti sono coperte da tegole di metallo che incanalano l’acqua che fuoriesce dalle fenditure della grotta, che viene raccolta e posta nelle acquasantiere (e venduta nelle bancarelle). Poco distante dall’ingresso vi è una teca di vetro contenente la statua di Santa Rosalia coricata in un baldacchino, coperta da un abito d’oro e adornata da collane e gioielli di ogni tipo, donati dai devoti. Tutta l’ambientazione è di grande fascino: l’acqua gocciolante, le pareti di roccia, il fresco umido, il silenzio, gli oggetti d’argento donati che spesso rappresentano cuori o arti dei miracolati.Il percorso a piedi lungo le rampe del Monte Pellegrino è una bellissima passeggiata tra i boschi, da cui si gode di una vista splendida sul golfo.

Ogni domenica mattina gruppi di tamil, indù e cattolici, percorrono l’antico sentiero che porta al santuario. Sono intere famiglie a muoversi, ma spesso anche gruppi di amiche in sari colorati. I tamil cattolici concludono il pellegrinaggio con la messa nel santuario. Il cammino degli indù, spesso a piedi nudi, finisce invece nel sagrato, di fronte a una statua di Sant’Antonio a cui pure rivolgono preghiere bruciando incensi. Particolarmente significativo è il momento dell’ascensione, perché anche in Sri Lanka i templi principali sono su montagne sacre. Cattolici e induisti si ritrovano in questa grammatica religiosa che li accomuna ai palermitani più legati alla tradizione, praticanti e non.

Il palazzo della Zisa

Il palazzo della Zisa (dall’arabo al-ʿAzīza, ovvero “la splendida”) sorgeva fuori le mura della città di Palermo, all’interno del parco reale normanno, il Genoardo (dall’arabo Jannat al-arḍ ovvero “giardino” o “paradiso della terra”), che si estendeva con splendidi padiglioni, rigogliosi giardini e bacini d’acqua da Altofonte. Il palazzo, concepito come dimora estiva dei re, rappresenta uno dei migliori esempi del connubio di arte e architettura normanna con ambienti tipici della casa normanna, compresa la doppia torre cuspidata, e decorazioni e ingegnerie arabe per il ricambio d’aria negli ambienti. L’etimologia della Zisa ci viene spiegata da Michele Amari che, nella sua Storia dei musulmani di Sicilia così scriveva:

« Guglielmo … rivaleggiando col padre … si mosse a fabbricare tal palagio che fosse più splendido e sontuoso di que’ lasciatigli da Ruggiero. Il nuovo edifizio fu murato in brevissimo tempo con grande spesa e postogli il nome di al-ʿAzîz, che in bocche italiane diventò «la Zisa» e così diciamo fin oggi »

Le prime notizie, indicano il 1165 come data d’inizio della costruzione della Zisa, sotto il regno di Guglielmo I (detto “Il Malo) e che l’opera fu portata a termine dal suo successore Guglielmo II (detto “Il Buono”) (1172-1184), subito dopo la sua maggiore età. Significativi interventi di restauro si ebbero negli anni 1635-36, quando Giovanni de Sandoval e Platamone acquistò la Zisa, adattandola alle nuove esigenze abitative. Nel 1806, la Zisa pervenne ai Principi Notarbartolo che ne fecero propria residenza effettuando diverse opere di consolidamento. Nel 1955 il palazzo fu espropriato dallo Stato, ed i lavori di restauro, iniziati immediatamente, vennero poco dopo sospesi. Dopo un quindicennio d’incuria ed abbandono. Nel 1971 l’ala destra, compromessa strutturalmente dai lavori e dagli interventi di restauro, crollò. Il progetto per la ricostruzione strutturale venne affidato al Prof. Giuseppe Caronia, il quale, nel giugno del 1991, restituì alla storia, uno dei monumenti più belli e suggestivi della civiltà siculo normanna. Dal 1991 la Zisa ospita il Museo d’arte islamica. Dal 3 luglio 2015 fa parte del Patrimonio dell’umanità (Unesco) nell’ambito dell’Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale.

La Moschea di Palermo

La moschea di Palermo è una moschea sunnita tunisina che si trova nel centro storico di Palermo. La gestione è esercitata direttamente dal governo tunisino attraverso il consolato tunisino a Palermo, attraverso l’Associazione culturale islamica. La moschea raccoglie la comunità di circa un centinaio di praticanti di Palermo e provincia, e fa riferimento ai circa 5.000 immigrati di religione musulmana presenti nel territorio provinciale. La moschea è stata ricavata nella chiesa sconsacrata di San Paolino dei giardinieri in via del Celso, La corporazione degli ortolani, costituita prevalentemente da liguri, abbandonò la Chiesa di San Giorgio e costituì la confraternita nel 1587 ponendola sotto la protezione di San Paolino di Nola. Nel 1591, venne edificato il luogo di culto di fronte al Monastero di Santa Maria del Cancelliere. Negli anni ’80 viene ceduta alla Regione Siciliana dalla Curia di Palermo e scelta dalla comunità islamica per il suo orientamento verso la Mecca. La ristrutturazione, diretta dall’architetto Salvo Lo Nardo, è costata circa 250.000 euro, e si è conclusa nel 1990.

Curiosità

La “moschea blu” di Palermo

Nella Palermo che fu dominata dagli arabi, nella città che fu abitata fra il Settecento e l’Ottocento da tanti commercianti tunisini e di altri paesi nordafricani, può capitare di comprare un vecchio edificio fra i vicoli del centro storico, ristrutturarlo e scoprire una moschea in casa. È la sorpresa di una giovane coppia che restaura una malandato appartamento di via Porta di Castro, nel quartiere più povero a due passi da Palazzo dei Normanni, e quando gli operai scrostano diversi strati di vernici, calce e ducotone, scoprono che una stanza è una moschea blu con preziosi disegni, versetti e iscrizioni arabe. Vittorio Sgarbi ha colto nella stanza-moschea «il simbolo perfetto dell’eterna presenza araba in Sicilia, così come della vocazione interculturale che di quella presenza è frutto».

Cattolici praticanti, i due proprietari hanno deciso di rispettare questo tesoro musulmano, come dice Valeria Giarrusso, muovendosi in questo ambiente quadrato, 3 metri e mezzo per lato, un balcone non casualmente aperto in direzione della Mecca: «Per noi sarà una stanza di meditazione dove rispetteremo la cultura islamica. Come dico agli amici che vengono a trovarci, né vino, né birra. Mai alcolici qui. Si beve in salotto. Non in moschea». E il marito: «Un riguardo alla religione musulmana». Corriere della Sera, 6 settembre 2013

Guarda il video del ritrovamento della  “moschea blu” di Palermo

Letture

Santi Gnoffo, Diario palermitano. Dal medioevo al secondo dopoguerra. Uomini, donne, luoghi, leggende, sfarzi e misteri di una città millenaria, Edizioni Varie, 2021

Affondando le radici all’epoca delle più antiche fonti medievali e giungendo con le sue propaggini a toccare gli anni quaranta del Novecento, quest’opera racconta al lettore la vita di Palermo grazie alle annotazioni giornaliere – come in un vero diario – degli avvenimenti più significativi. Accanto agli eventi trovano spazio proverbi, inserti lirici, modi di dire, tradizioni e usi popolari in grado di restituire il senso di una continuità mai scalfita dal trascorrere del tempo.

Simonetta Agnello Hornby-Mimmo Cuticchio, Siamo Palermo, Mondadori, 2019 

La Palermo della guerra, la Palermo vista dal mare e attraverso le trasparenze delle acque dolci che ancora la attraversavano, la Palermo della ricostruzione selvaggia, la Palermo dei morti per mafia. Ecco i vicoli della “munnizza”, i palazzi nobiliari, le statue del Serpotta, il cuntista che fa roteare la spada per impressionare il pubblico, le grandi figure della Chiesa che si sono schierate con i poveri e contro la mafia, le atmosfere di sangue degli anni Novanta, lo Spasimo e Palazzo Butera, Palazzo Branciforte, l’arte e le isole pedonali. I due autori dei libri evocano una città che guarda all’Europa, non solo in ragione della sua bellezza e delle sue contraddizioni, ma anche per il desiderio di futuro che vengono esprimendo le istituzioni e le nuove generazioni.

Stefania Auci, I leoni di Sicilia. la Saga dei Florio, Narrativa Nord, 2019

Dal momento in cui sbarcano a Palermo da Bagnara Calabra, nel 1799, i Florio guardano avanti, irrequieti e ambiziosi, decisi ad arrivare più in alto di tutti. A essere i più ricchi, i più potenti. E ci riescono: in breve tempo, i fratelli Paolo e Ignazio rendono la loro bottega di spezie la migliore della città, poi avviano il commercio di zolfo, acquistano case e terreni dagli spiantati nobili palermitani, creano una loro compagnia di navigazione. In tutto ciò, Palermo osserva con stupore l’espansione dei Florio, ma l’orgoglio si stempera nell’invidia e nel disprezzo: quegli uomini di successo rimangono comunque «stranieri» e «facchini». Non sa, Palermo, che proprio un bruciante desiderio di riscatto sociale sta alla base dell’ambizione dei Florio e segna nel bene e nel male la loro vita, sullo sfondo degli anni più inquieti della Storia italiana – dai moti del 1818 allo sbarco di Garibaldi in Sicilia.

Francesco D’Agostino, La meschita. Il quartiere ebraico di Palermo, Edizioni d’arte Kalòs, 2018

Non è dato sapere quando gli ebrei giunsero a Palermo, la prima notizia certa della loro presenza risale al 598 d.C. Intorno all’anno Mille, poco fuori le mura meridionali e sulle rive del non più visibile torrente Kemonia, gli ebrei palermitani edificarono il loro sobborgo, l’harat al-Yahud (quartiere dei giudei), e vi abitarono sino all’espulsione del 1492. La Giudecca, a cui si accedeva attraverso la Porta di Ferro (Bab al-hadid), era suddivisa in due contrade: la Meschita e la Guzzetta, un dedalo di vicoli, piazzette, orti e giardini. La realizzazione della via Maqueda prima e della via Roma poi ne causò lo sventramento, sconvolgendo l’assetto originario. La Guzzetta fu quasi completamente cancellata, della Meschita rimangono invece poche e rare tracce. Nel percorrere le strade così come si presentano oggi, con un po’ d’immaginazione il visitatore attento, seguendo l’itinerario proposto nel libro, può scoprire il fascino che questi luoghi conservano e tornare a respirare antiche atmosfere.

Leonardo Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, Adelphi, 2009

Abdallah Mohamed ben Olman, ambasciatore del Marocco, si trova a Palermo nel dicembre 1782, per via di una tempesta che ha fatto naufragare la sua nave sulle coste siciliane. È questo il caso che fa nascere, nella mente dell’abate Vella, maltese, e incaricato di mostrare all’ambasciatore le bellezze di Palermo, un disegno audacissimo: far passare il manoscritto arabo di una qualsiasi vita del profeta, conservato nell’isola, per uno sconvolgente testo politico, Il Consiglio d’Egitto che permetterebbe l’abolizione di tutti i privilegi feudali e potrebbe perciò valere da scintilla per un complotto rivoluzionario.

Ali Tariq, Un sultano a Palermo, Dalai Editore, 2006

Romanzo storico ambientato nella Sicilia araba all’epoca del dominio di Ruggero di Altavilla. Protagonista del romanzo è il sapiente geografo e medico islamico Muhammad ibn Abdullah ibn Muhammad al-Idrisi, amico e consigliere del re. Ma alla morte di Ruggero il delicato equilibrio che permetteva un clima di scambio culturale è destinato a venir meno. Lo scienziato Idrisi se ne andrà con i familiari, abbandonando Palermo all’ondata di massacro anti-islamico scatenata dai feudatari normanni, avidi di potere.

La cuccìa di Santa Lucia

Il nome “cuccìa” origina dal termine dialettale “cocciu” cioè chicco.
È una pietanza che in realtà trae origine dalla dominazione musulmana (in alcune città del Nord Africa esistono piatti molto simili con grano bollito, crema di latte e cannella).
Una leggenda palermitana riconduce (con scarso fondamento) l’origine della cuccìa a un episodio avvenuto durante la dominazione spagnola in Sicilia. A Palermo ci sarebbe stato un lungo periodo di carestia: i palermitani chiesero la grazia alla Santa siracusana, che fece arrivare al porto (il 13 dicembre) un bastimento carico di grano. La gente, a causa della fame che incalzava, non fece i tempo a macinare e a panificare, ma si limitò a mangiarlo semplicemente bollito e condito con olio. Da qui la cuccìa e il “fioretto” di non mangiare pane e pasta per la commemorazione di questo evento e per rispettare la santa. I trasgressori, si diceva, sarebbero diventati ciechi come Santa Lucia.
La preparazione della cuccìa è quasi un rito nelle famiglie siciliane e palermitane in particolare; la tradizione vuole che questo dolce sia distribuito a familiari, amici e vicini di casa.

Ingredienti

500gr di grano
200gr di zucchero a velo
1,5kg di ricotta fresca
50gr di frutta candita (preferibilmente cedro, scorzetta d’arancia o zuccata) tagliata a pezzetti, 200gr di cioccolato fondente

Lavorazione

Preparare il grano: metterlo in una pentola con acqua fredda per tre giorni, cambiando l’acqua continuamente. La sera prima della festa, mettere il grano a cuocere in un tegame, coperto d’acqua con un pizzico di sale e scolarlo bene.
Preparare la crema: setacciare (si può anche passarla con il frullatore) la ricotta, aggiungere lo zucchero a velo e mescolare bene. Spezzettare il cioccolato a scagliette, aggiungere alla crema la frutta candita e le scaglie di cioccolato e mescolare delicatamente (c’è anche chi aggiunge la cannella).
Infine aggiungere il grano alla crema. Si può anche riporre in frigorifero.

Guarda il video della ricetta!

Foto in anteprima: Centro Astalli/Valentina Pompei