Come documenta Strabone nella sua Geografia, composta all’inizio del I secolo dopo Cristo, il territorio dell’attuale Trieste era un phrounion, un avamposto militare dalla funzione nevralgica poiché snodo strategico sia sul piano militare che su quello commerciale.

È questo l’aspetto che ha caratterizzato storicamente la città: da Tergeste, castrum romano, all’impero bizantino, passando per gli Asburgo, per le guerre mondiali e le contese politiche e identitarie, Trieste è sempre stata il crocevia di popoli, culture, scambi commerciali e religioni.

Per questa ragione la città ha visto sorgere diversi luoghi di culto in rappresentanza delle varie confessioni religiose, che permettono di addentrarsi fisicamente nella quotidianità delle esperienze di vita delle singole persone in un’ottica di scambio e di conoscenza reciproca favorevole all’instaurarsi del dialogo interreligioso sul territorio.

 

                           Quattro passi nella storia

 

Moschea e Centro Culturale Islamico Ar-Rayan

La storia della moschea e del Centro Islamico Ar-Rayan si intreccia alle relazioni economiche e politiche del regno asburgico con l’Impero Ottomano, che iniziarono nel corso del 1700. A metà dell’Ottocento sorse il cimitero Ottomano, con una presenza turca sempre maggiore sul territorio di Trieste.

Il 1 ottobre del 1988, un gruppo di studenti provenienti dal Medio Oriente fondò il primo luogo di culto per riunirsi per la preghiera del venerdì, la rottura del digiuno nel mese del Ramadan e per le festività. Negli anni vi fu l’esigenza di uno spazio più ampio in concomitanza con la crescita della comunità islamica – che oggi conta tra le 6mila e 7mila persone nella provincia triestina[1] – con un primo trasferimento all’inizio degli anni Duemila, che vide diversi lavori di ampliamento di questa nuova sede e infine l’acquisto del palazzo dove si trova l’attuale sede, in via Maiolica 17, con l’avvio di ristrutturazioni con l’inaugurazione nel 2016 di una moschea che arriva ad ospitare fino a 700 fedeli. Rayan è una variante di Rayyan, termine arabo che nella tradizione islamica è legato a uno dei cancelli del Paradiso: il suo significato è “irrigato”, “lussureggiante”.

La Moschea e il Centro Culturale costituiscono un punto di riferimento tanto per la comunità musulmana, quanto per le cittadine e i cittadini che desiderano avvicinarsi alla cultura e alla fede islamica, e che hanno la possibilità, indipendentemente dal proprio credo, di associarsi al Centro beneficiando di varie iniziative tra cui figurano corsi di lingua e cultura araba oltre a conferenze ed eventi legati a tematiche sull’Islam e sulla situazione geopolitica attuale. In questo senso, Ar-Rayan si configura come esperienza cardine per il dialogo interreligioso, e negli anni ha stretto rapporti e instaurato collaborazioni con realtà rappresentanti di altre confessioni.

Il Centro Culturale e la Moschea si lasciano interrogare dal fenomeno migratorio, agendo anche nella direzione di una risposta alle dinamiche del mondo contemporaneo: infatti, oltre ad essere un punto di riferimento per i migranti, alla Moschea viene proposto anche un percorso di cittadinanza e integrazione per le persone migranti di fede islamica che vi si rivolgono, con l’organizzazione di corsi di lingua italiana. La Moschea Ar-Rayan si propone dunque come luogo di culto che dialoga con le migrazioni, ripensando e co-costruendo il significato di cittadinanza.

 

Sinagoga di Trieste[2]

Se nel 1200 il territorio di Trieste contava pochissimi ebrei, solo qualche secolo dopo, alla fine dell’Ottocento, la comunità era costituita da più di 5 mila membri.

Infatti, dopo che alla fine del tredicesimo secolo il Papa aveva ribadito il divieto per un cristiano di prestare soldi a un altro cristiano – all’epoca i prestatori di denaro erano i fiorentini cristiani – quel posto venne occupato dagli ebrei, i quali iniziano a chiamare altri membri della comunità provenienti soprattutto dalle attuali zone dell’Austria e della Germania, dando avvio a un processo di crescita.

La Sinagoga di Trieste fu dunque progettata per accogliere una comunità molto numerosa di fedeli: l’architettura non è ampia esclusivamente per una questione di capienza, ma perché corrispondeva simbolicamente all’importanza e all’influenza degli ebrei a Trieste. Prima della costruzione del Tempio Maggiore, la comunità si riuniva nelle Scole, le quattro sinagoghe del ghetto ebraico della zona di Riborgo. Con l’emancipazione – quel processo che vide un progressivo riconoscimento dei diritti degli ebrei, compreso quello alla cittadinanza – si decise di costruire una sinagoga di grandi dimensioni, il cui progetto fu affidato nel 1906 ai due architetti non ebrei di Trieste, Ruggero e Arduino Berlam. L’inaugurazione avvenne nel 1912.

La sinagoga ha tre facciate: via Donizetti presenta l’ingresso principale, aperto solo in occasione delle grandi festività; via San Francesco D’Assisi 19 è l’ingresso più utilizzato, nel cui complesso sono ricompresi gli uffici della Comunità, la biblioteca, l’archivio storico e il mikveh (bagno rituale); infine, l’ingresso di via Zanetti. Ciascuna facciata è architettonicamente diversa, mentre l’interno si costituisce di una sala principale divisa in tre navate che terminano con un’abside dalla volta a mosaico dorato. Originariamente, data la dimensione separata della preghiera, il piano terra era riservato agli uomini, mentre le donne partecipavano alla liturgia dalla galleria (Matroneo).

Nel Dopoguerra lo spazio è stato ripensato, con una divisione in due parti del piano terra tramite una Mechizà (divisorio) in legno sia a causa di una progressiva diminuzione numerica della comunità, sia per facilitare le donne anziane che non devono dunque salire sul matroneo. Fra le due guerre Trieste inizia ad essere chiamata “Porta di Sion” poiché assunse il ruolo di centro di smistamento di tutte le persone ebree che fuggivano dall’Est Europa e dalla Germania a causa delle persecuzioni, con molte navi che abbandonavano il porto dirette verso tutto il mondo.

Durante la Seconda Guerra Mondiale, la Sinagoga subì una serie di atti vandalici che culminarono nell’adibirla a deposito delle opere d’arte e dei libri sottratti alle famiglie ebraiche. Con un ingegnoso stratagemma, gli argenti rituali e l’archivio storico furono preservati poiché nascosti dal segretario della comunità Carlo Nathan Morpurgo, il quale riuscì anche a mettere in salvo gruppi di persone fino alla sua deportazione ed esecuzione ad Auschwitz nel 1944. Nel 2018, la prima pietra d’inciampo posta a Trieste sotto il porticato di via San Francesco è stata quella dedicata alla sua memoria.

 

La comunità ortodossa di Trieste[3]

Le due patenti emanate da Carlo VI – la prima fu il Trattato di Passorowitz del 1717, che sancì la liberalizzazione dei flussi commerciali tra l’Impero Asburgico e quello Ottomano; la seconda del 1719, con la città che divenne “porto franco” – portarono a Trieste, nel periodo che seguì, numerosi commercianti provenienti tanto dalla regione greca quanto dalle zone della Bosnia, dell’Erzegovina, del Montenegro e della Dalmazia.

Iniziò dunque a costituirsi una comunità di confessione ortodossa greco-serba, che con la concessione della libertà di culto da parte dell’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo ottenne il permesso per la costruzione di un tempio comune nel 1751, dedicato a San Spiridione Taumaturgo. Nel tempo iniziò ad emergere una disputa interna legata alla lingua liturgica: infatti la minoranza serba lamentava la celebrazione esclusivamente in lingua greca.

Per queste ragioni, il rescritto imperiale del 1781 stabilì l’alternanza linguistica (rispettivamente in lingua greca e slava antica) nella celebrazione liturgica. Lo stesso anno, insoddisfatti del rescritto, i greci scelsero di separarsi abbandonando il tempio comune, e le due comunità proseguirono separatamente la propria vita religiosa.

 

Chiesa San Nicolò dei Greci (greco-ortodossa)

Il 1784, due anni dopo l’ufficializzazione della fondazione di una comunità esclusivamente greco-ortodossa, vide l’inizio della costruzione della chiesa consacrata a San Nicolò e alla Santissima Trinità sul lungomare di Porto Vecchio (in particolare in Piazza Niccolò Tommaseo). L’inaugurazione avvenne con la celebrazione della prima messa nel 1787, ma la conclusione dei lavori arrivò nel 1795.

Nel 1818 furono invece commissionati gli abbellimenti della facciata all’architetto Matteo Pertsch, il quale li realizzò in chiave classicista sotto l’influsso dello stile barocco austro-bavarese: il timpano allargato a forma triangolare è sostenuto da sei paraste ioniche e vede sorgere ai propri lati due campanili con cupole in ardesia.

L’interno vede armonizzarsi lo stile impero e il barocco, ed è caratterizzato dall’iconostasi decorata da numerose icone, che separa lo spazio della celebrazione liturgica, il presbiterio, dallo spazio dei fedeli. Il museo, l’archivio storico e la biblioteca sono gli spazi situati al fianco della chiesa.

 

Chiesa della SS. Trinità e di san Spiridione (serbo-ortodossa)

Alla comunità serba rimase il tempio comune, che però era stato eretto su un terreno fangoso e paludoso per la precedente presenza di saline. Si decise dunque di demolirlo per costruirne uno nuovo istituendo un bando che fu vinto dall’architetto Carlo Maciachini, che terminò la nuova chiesa nel 1885.

Il tempio, situato in via Spiridione 9, è caratterizzato da un’architettura bizantina con pianta a croce greca, una cupola centrale e quattro cupole angolari. Come l’esterno, anche l’interno vuole trasmettere un’impressione di ricchezza e magnificenza simbolicamente rappresentate dai motivi cromatici dorati degli affreschi così come dal mosaico sovrastante l’ingresso principale che ritrae San Spiridione. La fila più bassa dell’iconostasi è decorata da quattro icone di grande pregio artistico, rivestite d’oro, argento e pietre preziose: vi sono raffigurati la Vergine Maria, Gesù Cristo, san Spiridione Taumaturgo e l’Annunciazione.

Nel corso del tempo la ricchezza del tempio è aumentata grazie a pitture su fondo a olio e diversi oggetti preziosi donati alla comunità da nobili, come la lampada e il candelabro d’argento donati dal granduca Paolo Petrovič Romanov, in seguito divenuto Paolo I zar di Russia.

La grande biblioteca della comunità serbo-ortodossa di Trieste costituisce uno dei centri più importanti di conservazione e promozione a livello di identità culturale, storica e religiosa fuori dalla Repubblica di Serbia.

 

Chiesa Evangelica Luterana

Due eventi segnano la storia della comunità luterana sul territorio di Trieste: il primo risale al 1717 quando la città venne dichiarata zona economica libera (porto franco) e iniziò ad attirare le prime famiglie di commercianti; il secondo è costituito dai tre editti emessi da Giuseppe II d’Asburgo tra il 1781 e il 1785, con i quali veniva sancita la libertà di culto per tutti i fedeli che professavano religioni differenti dal cristianesimo cattolico, e dopo i quali i luterani acquisirono una prima chiesa.

Con la crescita progressiva della presenza della comunità luterana, che nel corso dell’Ottocento arrivò ad annoverare circa 1700 persone, si diede avvio alla progettazione di una nuova chiesa in stile neogotico.

Ispirata alla Chiesa di San Nicola d’Amburgo, la Chiesa Luterana di Trieste fu inaugurata nel 1884, in quello che oggi è Largo Panfili, nella zona centrale della città.

Esemplificativo dello stile neogotico è il campanile a punta con le sue guglie e i pinnacoli adornati di sculture di animali fantastici. L’interno si presenta invece diviso in tre navate separate da due colonnati, con l’altare maggiore, la fonte battesimale e il leggìo che provengono da Breslava, dove la chiesa venne progettata. Significativo osservare una riproduzione della Trasfigurazione di Cristo di Raffaello sulla vetrata e la presenza di un organo della ditta Steinmeyer, restaurato nel 1985.

Nel corso del tempo la comunità si è ristretta fino a portare alla decisione di adottare l’italiano come lingua liturgica, pur essendo mantenuta una celebrazione in tedesco al mese. Nello scenario di una città come Trieste, dove le comunità religiose intrattengono un dialogo costante e aperto anche alla cittadinanza, la presenza luterana, oggi ridotta, non si configura come avulsa dal contesto triestino, bensì come luogo di dialogo e azione che si incorporano nel centro studi, nell’archivio storico, nei concerti e nei progetti legati ai letti ospedalieri messi a disposizione e nella raccolta di beni alimentari.

 

Cattedrale di San Giusto Martire

Sulla cima del colle di San Giusto, in Piazza della Cattedrale, si trova il duomo della città di Trieste dedicato a San Giusto Martire, la cui architettura rivela intrecci con la storia del territorio: nel V secolo dopo Cristo, sulla base del già presente propileo, ingresso monumentale di epoca romana costituito da due colonnati e da una scalinata centrale, sorse la basilica paleocristiana, di cui ora si rinvengono le tracce nei mosaici della pavimentazione.

Insieme alla più antica basilica suburbana di via Madonna del Mare, di cui sono stati rinvenuti i resti negli anni Sessanta del Novecento, la cattedrale di San Giusto costituisce la più importante testimonianza della prima comunità cristiana di Trieste. La chiesa paleocristiana fu sostituita nell’Alto Medioevo da due chiese – quella di Santa Maria e quella, appunto, del martire San Giusto – che vennero poi unificate nella basilica nel corso del 1300. L’esterno presenta una facciata con rosone in pietra carsica, tre busti bronzei che ritraggono vescovi celebri e un campanile con cinque campane. Notevoli all’interno sono i mosaici absidali realizzati in stile bizantino: l’abside di sinistra raffigura Maria Theotòkos (letteralmente “Genitrice di Dio”) con il figlio e gli arcangeli Michele e Gabriele ai lati; quello di destra ritrae il Cristo Pantocrator (“Onnipotente”) con ai lati i santi Giusto e Servolo.

A livello territoriale e di cittadinanza il duomo di San Giusto vede la parrocchia impegnata in attività di collaborazione associazioni e gruppi Scout, offrendo inoltre la possibilità di intraprendere vari percorsi spirituali.

 

Chiesa metodista e chiesa valdese di Trieste

Nel 1975 un patto di integrazione diede vita all’Unione delle Chiese metodiste e valdesi in Italia. Sul finire del diciannovesimo secolo il pastore metodista Felice Dardi iniziò un’opera di evangelizzazione a Trieste, dove il messaggio era presente grazie alle chiese protestanti ma unicamente in lingua tedesca. Dardi predicò invece in italiano per coinvolgere la classe proletaria e i ceti subalterni, occupandosi anche delle problematiche sociali interne alla comunità triestina. La presenza valdese a Trieste risale invece al periodo posteriore alla Prima Guerra Mondiale, e si fonda sugli insegnamenti di Valdo di Lione, che ispirato dalla figura di Cristo, si impegnò per una Chiesa povera e una libertà di predicazione evangelica.

Le due chiese condividono le attività negli stessi spazi, in una visione della fede basata sulle Scritture e sull’attenzione alle dinamiche sociali che attraversano il mondo contemporaneo. Fino a pochi anni fa, i valdesi hanno celebrato il culto nella Basilica di San Silvestro gestita dalla comunità elvetica e poi sono stati ospitati dai metodisti nella loro chiesa alla Scala dei Giganti, dove tuttora sono rimasti.

 

Basilica del Cristo Salvatore

Situata in piazza San Silvestro 4, secondo una leggenda la basilica, nota anche con il nome di San Silvestro, sorge sul luogo in cui abitavano due martiri triestine – i cui culti a propria volta richiamano quelli per le sante Tecla di Iconio e Eufemia di Calcedonia. Risalente all’undicesimo secolo, l’edificio fu messo all’asta dagli Asburgo e comprato nel 1785 dalla Comunità Elvetica, la quale si accordò con la chiesa valdese nel 1927 per un comune utilizzo come luogo di culto.

Con base irregolare, la basilica è in stile romanico e presenta un ampio rosone e un portico sotto il campanile, probabilmente un’antica torre di difesa durante il periodo medievale.

All’interno, che si configura con tre navate e un tetto a capriata, è possibile osservare affreschi risalenti all’inizio del 1300. Nel 1928 la basilica fu dichiarata monumento nazionale, e dopo un primo restauro nel 1960 ve ne sono stati altri due nel 1990 e nel 2018.

 

Chiesa Metodista, Scala dei Giganti

La comunità Metodista è presente nella città da oltre un secolo. Ha il suo luogo di culto in Scala dei Giganti, 1. L’edificio non è visibile dall’esterno, in quanto circondato dall’alto muraglione della Scala dei Giganti e da un giardino fittamente alberato. Tuttavia si può ancora vedere l’antico ingresso, ora murato, della cappella e del vecchio cimitero in via del Monte. La Chiesa Metodista è presente a Trieste da poco più di cento anni. Infatti, proprio il 25 dicembre 1998 essa ha compiuto il primo centenario della sua costituzione e dell’inaugurazione del tempio, avvenuta appunto nel giorno di Natale del 1898 con un partecipato culto presieduto dal pastore Felice Dardi, triestino, iniziatore e fondatore dell’opera metodista nella città. Oggi essa intrattiene ottimi rapporti di fraternità con tutte le altre comunità religiose di Trieste e partecipa attivamente allo sviluppo del discorso ecumenico; ospita inoltre la comunità valdese per numerose attività.      

 

                                            Letture

 

La coscienza di Zeno, Italo Svevo, Cappelli Editore, Bologna, 1923

Il classico di Svevo, attraverso la voce e lo sguardo autoriflessivo di Zeno Cosini sulla propria vita, racconta non solo del carattere interiore della Trieste di inizio Novecento, ma anche di come l’influenza culturale dell’Impero austro-ungarico avesse portato la psicoanalisi ad approdare nella città. Una città in cui i personaggi a cui dà voce Aaron Schmitz, ebreo di famiglia tedesca, in arte Italo Svevo, sono rappresentanti di una multiculturalità che si esplica nelle considerazioni di Zeno sulle lingue ed è esemplificativa dei vari gruppi che compongono la cittadinanza di Trieste.

 

I fantasmi di Trieste,  Dušan Jelinčič, Bottega Errante Edizioni, 2018

«[…] ho voluto dare ai fantasmi astratti dei volti concreti, descrivendo storie e persone reali che hanno fatto, nel bene e nel male, la storia della mia città attraverso le proprie angosce, alcuni esorcizzandole, e altri invece uscendone sconfitti»

Nato a Trieste da una famiglia slovena, Dušan Jelinčič rievoca in questa raccolta di racconti gli spettri dei propri ricordi, del proprio passato e di quello della propria città, attraversandola insieme a eventi storici e a personaggi realmente esistiti: tra questi, Diego de Henriquez, collezionista di materiale bellico, James Joyce, il poeta amico di Svevo che elesse Trieste sua seconda patria e Franco Basaglia, psichiatra rivoluzionario autore della chiusura dei manicomi in Italia. Storia e storie si intrecciano nelle pagine di Jelinčič, presentando i molti volti di Trieste tramite quelli di coloro i quali l’hanno attraversata e vissuta, autore stesso compreso.

 

Trieste. O del nessun luogo, Jan Morris, Il Saggiatore, 2001

«Rieccomi là a settant’anni, sempre in cerca di verità sulla stessa riva. Jorge Luis Borges aveva colto nel segno raccontando di un artista che si ripropone di ritrarre il mondo salvo accorgersi a un certo punto che quel “paziente labirinto di linee tracciava l’immagine del suo volto”: è quello che è accaduto a me, che ho passato la vita a descrivere il pianeta e ora osservo Trieste come potrei guarda in uno specchio:

Era il mondo in cui camminai: quel che vidi, o sentii o provai proveniva solo da me stesso»

Scritto come omaggio personale che fluisce tra storia, autobiografia, memorie collettive e personali, il ritratto che la giornalista e storica Jan Morris restituisce di una delle città che per lei sono state più importanti vuole essere un richiamo per i viaggiatori e un interrogarsi sulla propria vita, sulla propria traiettoria. Una storia percorsa da conflitti, tensioni, attraversamenti, incontri, momenti di splendore, quella di Trieste, che riflette la biografia dell’autrice, il suo sentirsi “da nessuna parte”, “separata”, “divisa” prima della transizione di genere, il suo abitare il margine che in maniera significativa condivide ed esprime raccontando di una città di confine, da sempre crocevia di popoli e storie.

 

                                             Sapori

 

Gulash

La preparazione di questa zuppa di carne non è originaria di Trieste: il gulash proviene dall’Ungheria – Goulash o Gulyás – ed era una ricetta utilizzata dai pastori nomadi delle praterie, i Gulyás appunto, che portavano con sé pezzi di carne essiccata poi preparati con acqua bollente e verdure (gulyás-leves, traducibile con “zuppa alla bovara”).

Verso la fine del 1800, la ricetta migra nei paesi circostanti, adattandosi ai gusti e alle tradizioni locali e approdando anche sul territorio di Trieste.

Qui l’aggiunta della paprika (ingrediente che si ritrova in molti altri paesi) e l’esclusivo utilizzo della cipolla – in quantità corrispondente alla carne – come verdura contraddistinguono la ricetta, come testimonia una delle più antiche raccolta di ricette tradizionali curata da Maria Stelvio, La Cucina Triestina (1927).

Inoltre, il gulash triestino si caratterizza per essere più simile a uno spezzatino che a una zuppa.

Ingredienti

  • 1.2 kg Carne di manzo (Capello di prete, guancia, polpa di collo, muscolo di spalla. Si può utilizzare un unico taglio o più di uno)
  • 1.2 kg Cipolla dorata
  • 1 cucchiaio Paprika Forte
  • 3 cucchiai Paprika dolce
  • 900 ml Brodo o Acqua
  • 2 bicchieri Vino rosso (Refosco)
  • 1 cucchiaio Cumino
  • q.b. Burro
  • q.b. Sale
  • q.b. Pepe
  • q.b. Farina

Preparazione

Dopo aver scelto il taglio/i tagli di carne da utilizzare, si taglino a cubetti non troppo piccoli (4 cm ca.), e si esegua lo stesso procedimento per le cipolle.

Scaldare nel frattempo l’olio in un tegame, nel quale andranno inseriti i pezzi di carne dopo averli infarinati per sigillarli. Quindi trasferire la carne in un recipiente a parte.

Si aggiunga un po’ d’olio nel tegame dove è stata sigillata la carne e si faccia appassire la cipolla, dopodiché, aggiungere la carne, i 3 cucchiai di paprika dolce, 1 cucchiaio di paprika forte e il cumino, mescolando per qualche minuto per insaporire e sfumando con due bicchieri di vino rosso.

Aggiungere poi il brodo o l’acqua precedentemente scaldata, coprire con un coperchio e cuocere a fuoco basso per 3 ore, dando una mescolata ogni mezz’ora e aggiungendo il sale, laddove il brodo non fosse già stato salato, dopo due ore.

Dopo tre ore, rimuovere il coperchio e lasciare cuocere ancora una mezz’ora per far evaporare l’acqua e raggiungere la giusta consistenza.

Il gulash pare essere ancora più buono il giorno seguente, e può essere accompagnato da purea di patate, polenta o gnocchi!

Guarda il video della ricetta!


[1] Riferimenti: https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/iviaggidelcuore/la-moschea-di-trieste_F310964901002C05 , sito del centro AR-Rayan : https://www.islam-trieste.it/chi-siamo

[2] https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/iviaggidelcuore/la-comunita-ebraica-di-trieste_F310964901002C06 ; http://www.triestebraica.it/it/culturaturismo/la-sinagoga ; https://it.wikipedia.org/wiki/Sinagoga_di_Trieste

[3] http://www.comunitaserba.org/comunita/ ; http://www.comgrecotrieste.it/vw_Page.php?tp=

 

Foto in anteprima: pexels-una-laurencic-4285169 (ad uso gratuito)