Capitale del Cattolicesimo mondiale, Roma ha ormai il volto di una metropoli multietnica e multireligiosa, in cui convivono – a volte con fatica – comunità e tradizioni diverse.

Non si tratta di un fenomeno recente: per tutto il corso della sua storia millenaria, la città è stata luogo d’incontro di popoli e culture e questa pluralità di identità, anche religiose, ne ha segnato in modo significativo il paesaggio e le usanze.

Accanto alle comunità antiche, come quella ebraica e quella valdese, il caleidoscopio delle fedi in città è composto soprattutto dai molti cittadini stranieri che vivono a Roma e nei paesi limitrofi. Secondo i dati della Caritas, gli immigrati cristiani sono il 65% nella Capitale e il 76,5% negli altri comuni della Provincia (complessivamente oltre 300 mila). I musulmani (in tutto oltre 70 mila) incidono per il 18% tra gli immigrati della Capitale e per il 12% tra quelli della Provincia. Anche i fedeli delle religioni orientali (induisti e buddisti, ciascuna comunità con una consistenza di circa 10 mila fedeli) sono maggiormente concentrati nella Capitale; fanno eccezione le diverse migliaia di sikh indiani, che si trovano nell’area Pontina, tra le province di Latina e di Roma.

⇒ Quattro passi nella storia

Sinagoga di Ostia Antica

La sinagoga (dal greco: “luogo in cui si sta insieme”) rappresenta l’edificio comunitario più importante dell’ebraismo. L’architettura delle sinagoghe è influenzata principalmente dal contesto in cui esse vengono costruite: non esistono particolari prescrizioni che ne determinino l’aspetto esteriore mentre, per l’interno, esse sono soggette ad alcune regole dettate dai rabbini nel corso dei secoli.

La sinagoga di Ostia fu rinvenuta nel 1961 durante i lavori di costruzione della strada diretta all’aeroporto di Fiumicino e testimonia l’antichità della presenza ebraica all’interno del contesto multi-etnico e quindi multi-religioso della città. Rappresenta una delle più antiche testimonianze archeologiche dell’ebraismo della diaspora (solo a Delo, in Grecia, ne è stata rinvenuta una più antica, del I. sec. a.C.).
Fu edificata probabilmente a seguito della costruzione del porto voluto dall’imperatore Claudio (41-54 d.C.) che portò all’incremento del volume dei traffici commerciali della città e ad un conseguente aumento della popolazione – anche ebraica – che risiedeva nella zona.
Gli ambienti della sinagoga oggi visibili rispecchiano, però, le trasformazioni dell’edificio avvenute nel IV secolo quando il complesso fu ingrandito e ristrutturato. In uno degli spazi del vestibolo originario si creò una cucina con forno e con i recipienti interrati per le derrate alimentari, mentre all’interno dell’aula fu costruita un’edicola che costituisce il deposito dei rotoli della Legge (Torà), detta in ebraico aròn ha-qodesh.

Questa nuova sistemazione dell’area conferma quanto noto dalle fonti, cioè che le sinagoghe servivano anche da ostello per viaggiatori ebrei, per i mercanti o per i poveri.
Per approfondire la storia secolare della comunità ebraica di Roma si può visitare il Museo Ebraico al centro di Roma, adiacente al Tempio Maggiore (Lungotevere dei Cenci).

Catacombe di San Callisto

Le catacombe di San Callisto sono tra le più antiche e meglio conservate di Roma. Sorgono in un appezzamento di terreno compreso tra Via Appia Antica, Via Ardeatina e Via delle Sette Chiese, sono strutturate in una rete di gallerie lunga quasi 20 km e situata a 20 metri di profondità e ospitano al loro interno i corpi di martiri, pontefici e di quasi mezzo milione di fedeli. Sono costituite dalla “Cripta dei Papi”, luogo di sepoltura privilegiato dai primi papi cristiani (si contano una decina di sepolture), dalla “Cripta di Santa Cecilia”, il luogo in cui, leggendariamente, fu ritrovato il corpo martirizzato della santa e da altri cinque cubicoli minori, denominati “dei Sacramenti” per via dei temi dipinti (scene di battesimo ed eucaristia). Vi sono inoltre, incisi o dipinti sulle pareti, simboli stilizzati tipici delle catacombe, come il Buon Pastore, l’orante, il monogramma di Cristo e il pesce utilizzati all’epoca delle persecuzioni per esprimere in maniera occulta la propria fede religiosa.

Nei primi secoli successivi alla morte di Cristo, i cristiani venivano osteggiati dalle autorità romane e questo implicava che non avessero diritto a cimiteri esclusivi per la propria religione e che fossero costretti a seppellire i propri morti in cimiteri comuni. A partire dal II secolo, grazie al supporto di famiglie neoconvertite del patriziato romano, le comunità cristiane iniziarono a ricevere donazioni e concessioni di terreni e ciò permise loro di seppellire i morti in appositi complessi cimiteriali sotterranei denominati appunto “catacombe”. San Callisto è un chiaro esempio di queste donazioni patrizie: il terreno su cui sorge, infatti, fu offerto in dono dalla famiglia dei Cecilii direttamente al vescovo di Roma dell’epoca. Il nome del complesso cimiteriale è legato al diacono Callisto, incaricato dell’ingrandimento e della gestione del cimitero da papa Zeffirino (199-217), di cui poi fu successore fino all’anno 222.

Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro

Le Catacombe dei Santi Marcellino e Pietro (chiamate anche catacombe di Sant’Elena o Catacombe di San Tiburzio) nacquero all’incirca tra il 100 e il 200 d.C. Sono situate sulla via Casilina, al terzo miglio dell’antica via Labicana a Roma dove oggi sorge il quartiere di Tor Pignattara. La zona faceva parte di un fondo imperiale di proprietà della Augusta Flavia Giulia Elena, come testimoniato nel Liber Pontificalis nella vita di San Silvestro (314-315) dove si parla della donazione di questa area da parte di Costantino. L’avvento dell’imperatore e la sua politica filo cristiana avviata dall’imperatore fecero sì che in questo luogo fosse edificata una basilica circiforme e il cimitero cristiano ipogeo, il cui accesso è ubicato presso la chiesa dei Santi Marcellino e Pietro.

Insieme al mausoleo di Elena, tomba dell’imperatrice madre di Costantino, il complesso è denominato Ad duas lauros -”Ai due allori”, per la presenza di due alberi di alloro sul posto.

Le catacombe si estendono per una superficie di 18.000 m² e se ne indicano i confini dalla Porta Sessoriana (Porta Maggiore) fino alla Via Latina e a sud fino a Monte Cavo. Si stima che, nel solo III secolo, accolsero più di 15.000 sepolture sotterranee a cui vanno aggiunte alcune migliaia in superficie. Nel 2006 vennero alla luce nuovi ambienti inesplorati contenenti affreschi e una fossa comune con oltre 1.200 corpi di persone, probabilmente deceduti a causa di un’epidemia di peste, probabilmente di alto rango, perché onorati con gli stessi incensi cerimoniali come la sandracca, il franchincenso e l’ambra. Dopo un’opera di restauro degli ambienti finanziata dalla Repubblica dell’Azerbaigian, dall’aprile 2014 le catacombe sono regolarmente visitabili ogni sabato e domenica. I restauri, che hanno restituito luminosità e vitalità a quelle rappresentazioni, fanno sì che le catacombe dei SS. Pietro e Marcellino siano ancora un gioiello archeologico di inestimabile valore storico e culturale.

I cubicoli e gli affreschi

Pur essendo luoghi di sepoltura comunitari, le catacombe meravigliano sempre il visitatore, soprattutto per gli affreschi che impregnano le pareti di quelle stanze sotterranee – i cubicula – e degli arcosoli. Attraverso gli affreschi, i defunti narrano la propria vita trasmettendo i valori della fede cristiana e la speranza in un aldilà al fianco dei santi, di Cristo, degli apostoli. Raccontano di miracoli, di storie Vetero e Neotestamentarie, come nel caso “della matrona orante” recentemente restaurata. Sulla volta, all’interno di una ricca cornice color rosso mattone, intervallata con serti vegetali fioriti, vi è Daniele nudo e orante tra i leoni e la storia di Giona rappresentata in tre dei momenti principali: il profeta gettato in mare e ingoiato dal pistrice, poi sdraiato sotto il pergolato e, infine, seduto e pensoso sotto la pianta oramai secca. Al centro della volta vi è il nucleo del programma figurativo, costituito dal Buon Pastore, simboleggiante Cristo, con due pecorelle ai lati e una sulle spalle. Vi è anche la presenza di Noè orante nell’arca, raffigurata come una cassetta lignea, mentre la colomba con il rametto d’ulivo giunge in volo. Sulle pareti fa la sua comparsa il motivo del pavone, celebre simbolo cristiano per indicare l’immortalità, in quanto si credeva che le sue carni fossero incorruttibili dopo la morte. Le raffigurazioni, che rimandano alla salvezza, sono state pensate appositamente per far sì che i defunti qui sepolti avessero, in qualche modo, assicurato un aldilà paradisiaco.

Il cubicolo “delle stagioni”, invece, costituisce un ulteriore monumento che si distingue per la sua ricchezza di immagini. Databile intorno alla prima metà del IV secolo d.C., trae il suo nome dalle motivazioni stagionali collocate agli angoli della volta: le personificazioni dell’estate, della primavera, dell’autunno e dell’inverno osservano lo svolgersi del ciclo di Giona. Vi sono inoltre quattro oranti, probabilmente riconducibili ai defunti proprietari del cubicolo. Lo spazio centrale della volta è nuovamente occupato dal Buon Pastore, mentre ogni spazio tra le sepolture è affrescato: vi è rappresentata la moltiplicazione dei pani, seguita da personaggi come GiobbeMosè che percuote la rupe per farne scaturire la sorgente d’acqua e Noè nell’arca che attende la colomba. Le catacombe dei SS. Pietro e Marcellino si distinguono anche per le numerose rappresentazioni riguardanti i banchetti: uomini e donne sono sdraiati o seduti intorno a queste mense dalla forma di sigma lunato, con un tripode sormontato da grossi piatti con cibarie che compare in posizione centrale. I servitori si accingono a porgere le bevande all’interno di coppe. È questo il caso dell’arcosolio di Sabina, oppure di Irene e di Agape.

Il IV secolo avanza e i pictores, data l’elevata committenza, decidono di riprendere un tema ispirato al mondo profano e molto caro all’arte cristiana: quello di Orfeo che suona e che canta, incantatore di animali e comparabile a Cristo il quale, con la sua parola, attrae le anime degli uomini. È allora che nasce l’arcosolio di Orfeo, la cui lunetta presenta proprio il cantore abbigliato alla maniera orientale, con il berretto partico, una tunica variopinta e chiusa con bottoni, tenuta ferma da una preziosa cintura. In una mano tiene la lira, mentre nell’altra stringe il plettro.

Il cubicolo dei Santi Pietro e Marcellino, martiri che danno il nome alle catacombe – Pietro, un esorcista, e Marcellino, un presbitero – è detto “dei santi”, ed è databile al tardo IV – inizi del V secolo d.C. Essi sono presentati insieme ai SS. Tiburzio e Gorgonio, altri due martiri venerati nelle catacombe della via Labicana, mentre acclamano Cristo, abbigliato con una tunica porpora e con un codice aperto tra le mani. Ai ati sono raffigurati i Principi degli Apostoli, Pietro e Paolo e, in asse con lo stesso Cristo, vi è la sua trasposizione zoomorfa, l’Agnus Dei, posto sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci. La monumentalizzazione dell’ambiente si deve a Papa Damaso (366-384), promotore del culto martiriale. Quella stessa cripta, già ricca in epoca antica, mutò in una piccola basilica in epoca altomedievale, cui si accedeva tramite un ampio scalone percorso dai numerosi pellegrini che lasciarono tracce del loro passaggio, incidendo nomi e invocazioni sulle pareti. Nel IX secolo, quando le spoglie dei martiri furono traslate, la piccola basilica non venne più utilizzata.

Santa Maria in Cosmedin

La Basilica di Santa Maria in Cosmedin, un tempo chiamata “Santa Maria in Schola Græca”, si trova nell’attuale Piazza della Bocca della Verità. Fu costruita nel VI secolo sopra le rovine di due antichi edifici romani, l’Ara massima di Ercole e l’Annona, le cui colonne di marmo, con capitelli corinzi, sono ancora visibili all’interno della chiesa. Successivamente è stata ampliata nell’VIII secolo da Papa Adriano I che la trasformò in una vera basilica ed è in questa fase che divenne nota come Santa Maria in Cosmedin, dalla parola greca kosmidion (ornamento), in seguito alle splendide decorazioni interne. Nuove parti vennero aggiunte nei secoli XI, XII e XIII. La chiesa e i suoi annessi furono affidati ad una colonia di monaci greci che si erano rifugiati a Roma per sottrarsi alle persecuzioni dell’iconoclastia (un movimento religioso-politico, nato all’interno dell’Impero Bizantino, che si opponeva, anche violentemente, all’uso di immagini nel culto) e si erano stabiliti su questa riva del Tevere, dove era già insediata la comunità greca ed era per ciò nota come Ripa Greca.

Sulla sinistra del portico è visibile e visitatissima la famosa Bocca della Verità, che probabilmente era un chiusino (una sorta di tombino) di età romana e che secondo la leggenda morderebbe la mano di chi mente.

Attualmente a Santa Maria in Cosmedin fa capo la comunità melkita cattolica, che ogni domenica celebra la Messa in lingua araba secondo il rito bizantino.

Cimitero acattolico di Testaccio

Il “Cimitero acattolico” a Roma, un tempo detto “Cimitero degli stranieri”, “Cimitero dei protestanti”, o anche “Cimitero degli artisti e dei poeti“, è da molti considerato uno dei più suggestivi di Roma.
La zona dove sorge il Cimitero, fra Porta San Paolo e Testaccio, ancora nel ’700 e fino ai primi dell”800 faceva parte della campagna ed era infatti nota come “i prati del popolo romano”.

Secondo la legislazione dello Stato Pontificio, chi non era cattolico non poteva essere sepolto in chiesa o in terra benedetta e le inumazioni dovevano aver luogo di notte. Per questo durante il Settecento molti protestanti (diplomatici, viaggiatori, nobili in esilio, studiosi, artisti) morti a Roma erano trasportati a Livorno, dove fin dal 1735 era stato autorizzato un cimitero inglese.

La più antica lapide del cimitero di Testaccio risale al 1732 ed è quella del tesoriere della famiglia reale inglese degli Stuard, allora in esilio a Roma. Ma a quel tempo né mura né altro limite separavano le tombe dalla campagna circostante e accadeva che le sepolture venissero profanate da fanatici e da ubriachi. Nel 1817, i rappresentanti diplomatici di Prussia, Hannover e Russia ottennero dal Papa il permesso di recintare il Cimitero. Questa zona è indicata oggi come “zona vecchia”, mentre la zona originaria, a ridosso della Piramide di Caio Cestio, è detta “parte antica”.
Nel 1894, l’Ambasciata di Germania acquistò, anche a nome delle Colonie Estere Acattoliche, circa 4300 mq in aggiunta a quelli già esistenti e nel 1898 fu costruita una semplice cappella.

Oggi le persone sepolte al Cimitero di Testaccio sono quasi 4000: per lo più inglesi e tedeschi, ma anche molti americani e scandinavirussigreci e persino qualche cinese e rappresentante di altri paesi orientali. Tra di loro ci sono alcuni personaggi celebri, come i poeti inglesi Keats e ShelleyAntonio Gramsci e Carlo Emilio Gadda.

Catacombe ebraiche

In molti non sanno che a Roma, oltre alle ben note catacombe cristiane, ci sono anche diversi siti catacombali ebraici. Fino ad oggi ne sono stati scoperti sei, un numero sicuramente rilevante, data la piccola percentuale di ebrei nella popolazione romana, largamente pagana prima e cristiana poi. Esistono anche diversi esempi di sepolture pagane, che vengono a volte confuse e chiamate catacombe, ma queste avvenivano più che altro in alcuni ipogei di dimensioni ridotte, ed erano tombe familiari o di famiglie collegate tra loro da qualche vincolo.

Le catacombe ebraiche vennero costruite perlopiù contemporaneamente o in seguito a quelle cristiane, forse su loro imitazione, e per motivi piuttosto simili: in primis, la credenza nella resurrezione dei corpi e della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Essendo più tarde e avendo subito meno rimaneggiamenti rispetto alle catacombe cristiane – che venivano continuamente ampliate per poter scavare sepolture vicino ai corpi dei martiri e in seguito saccheggiate – sono mediamente meglio conservate, e presentano moltissimi dipinti murali, che ripetono i simboli principali della religione ebraica, quali il pavone, la menorah e l’aron. Presentano anche alcune tipiche sepolture di origine palestinese, fatte “a forno” (kokhim), particolarità dei cimiteri ebraici.

Le catacombe ebraiche sono poi sostanzialmente l’unica testimonianza archeologica di questa comunità, insieme alla sinagoga di Ostia (unica sopravvissuta tra quelle presenti nella Roma antica), e danno l’idea di una comunità abbastanza benestante, vista la ricchezza di molte tombe e le epigrafi che riportano i mestieri svolti in vita. Sono anch’esse collocate lungo le vie consolari (Nomentana, Appia, Ardeatina e Portuense) e fuori dal pomerio, il confine sacro che delimitava e separava la città dei vivi da quella dei morti, perché per i Romani era sacrilego mischiare i due mondi.

Pochissime sono le eccezioni a questa regola, e le tombe romane dentro al pomerio si possono contare sulle dita di una mano (si ricordi quella di Traiano, che era posta ai piedi della celebre Colonna). Le catacombe ebraiche quindi, così come quelle cristiane e le necropoli pagane, si adeguavano alla tradizione romana di seppellire fuori dalla città, ma in luoghi comunque facilmente raggiungibili.

Praticando l’inumazione, a differenza della tradizione romana dell’incinerazione, erano necessari per ebrei e cristiani cimiteri più grandi rispetto a quelli pagani, e per conservare i corpi per la resurrezione servivano luoghi che non ne permettessero un rapido deperimento. Vincoli solidaristici all’interno della comunità garantivano poi a tutti una degna sepoltura, soprattutto nei periodi di crisi economica e politica, cosa che rendeva questi luoghi in continua attività almeno fino alla caduta dell’impero romano d’occidente e anche oltre.

Tempio Maggiore di Roma

Il Tempio Maggiore di Roma è una delle più grandi sinagoghe d’Europa e sorge in un’area compresa tra il fiume Tevere e Piazza delle Cinque Scole. Il luogo in cui si trova ospitava tradizionalmente cinque Scole (o sinagoghe) differenziate in base alla provenienza e al rito dei fedeli (Scola Tempio per gli ebrei romani, Scola Nova per gli ebrei dei piccoli centri del Lazio, Scola Siciliana, Catalana e Castigliana per gli ebrei esuli). A causa di un decreto papale del 1555, che proibiva agli ebrei di avere più di un luogo di culto, le 5 congregazioni vennero raccolte tutte sotto lo stesso tetto in modo da risultare come un edificio unico.

L’attuazione di un nuovo piano regolatore nel 1888 comportò la distruzione di molti vicoli ed edifici del ghetto ebraico, comprese le 5 Scole, per fare posto ad un’unica grande Sinagoga. I lavori di costruzione iniziarono nel 1901 e il 29 luglio del 1904 il Tempio Maggiore venne inaugurato. L’architettura dell’edificio ha uno stile che è frutto della commistione tra arte assiro-babilonese ed Art Nouveau ed è strutturata su due piani. Al piano terra è situata la Sinagoga Grande, costituita da un’ampia stanza centrale e da due navate laterali. Nel piano interrato si trovano invece la Sinagoga Piccola (chiamata anche Tempio Spagnolo) che comprende parti provenienti dalle cinque scole distrutte precedentemente e il Museo ebraico, che raccoglie una collezione di oggetti archeologici, liturgici, stampe, oggetti di culto e paramenti sacri appartenenti alla Comunità ebraica di Roma.

Tempio valdese di Piazza Cavour

Quella valdese è la più antica comunità cristiana non cattolica, presente in Europa da molto tempo prima della Riforma del XVI secolo. I Valdesi prendono il loro nome da un mercante di Lione, in Francia, detto Valdo, che intorno al 1170 distribuì i suoi beni ed iniziò a predicare il Vangelo assieme ad un ideale di rinnovamento della Chiesa. Subì un processo, venne scomunicato, ma egli e i suoi seguaci, i Poveri di Lione, continuarono a predicare e formarono piccole comunità, costrette a riunirsi in segreto per la repressione di cui erano oggetto.

Presenti in Italia dal XIII secolo, soprattutto in alcune vallate del Piemonte, i Valdesi aderirono alla Riforma Protestante nel 1532. Subirono sanguinose persecuzioni e sopravvissero ad un tentativo di sterminio nel 1686. I loro diritti civili e politici furono concessi solo a partire dal 1848, mentre quelli religiosi vennero poi garantiti nel 1984, con l’Intesa tra il Governo italiano e la Tavola Valdese.  Il tempio valdese a Roma fu edificato nel 1910 e si ispira, nell’architettura come nella decorazione eseguita da Paolo Paschetto, alle basiliche paleocristiane, di cui conserva fondamentalmente la pianta e alcuni tratti architettonici salienti, che si colgono dietro i motivi di ascendenza liberty, tipici del gusto dell’epoca.

In questa chiesa si è voluto mantenere uno stile semplice ma anche fare spazio alla bellezza; tra le decorazioni, in linea con la tradizione, è possibile trovare i soggetti dell’arte cristiana dei primi secoli reinterpretati in stile Art Nouveau.

L’elemento centrale della teologia protestante è la Scrittura; entrando nel tempio infatti, la Bibbia è posta al centro, aperta e “offerta” a chi entra, e alle sue spalle c’è il pulpito che ricorda l’elemento essenziale del culto ossia la predicazione della scrittura. Dietro il pulpito vi è l’organo; il canto della comunità è infatti parte integrante e fondamentale del culto nonché il modo in cui essa partecipa. L’organo è caratterizzato da un sistema pneumatico tubolare, fra le ultime opere del celebre Carlo Vegezzi Bossi, è un complesso di oltre 2300 canne, in cui, grazie ad una gamma di registri sonori più tutte le combinazioni meccaniche in uso a quei tempi, convivono intonazione classica e sinfonica. È stato anche lo spazio in cui, durante la Seconda guerra mondiale, sono state nascoste alcune famiglie ebree per sottrarle alla deportazione. Sempre su cartoni del Paschetto (visibili nel Museo della Casina delle Civette a villa Torlonia) vennero realizzate dal maestro Cesare Picchiarini le vetrate, che per il valore di testimonianza ed insegnamento loro attribuito dall’autore, secondo l’uso antico, rappresentano il vero fulcro di tutta la decorazione, in cui l’atmosfera creata dai giochi floreali delle alte trifore sostiene lo svelarsi attraverso i simboli biblici del ricco contenuto della fede. Gli arredi, anch’essi curati dal Paschetto, furono realizzati da diversi artisti: il professore Augelli di Pietrasanta scolpì il fonte battesimale, L. Zalaffi di Siena forgiò i lampadari, i Corsini di Siena eseguirono la tavola ed il pulpito, i cui bassorilievi riproducono il monogramma cristiano ed i volti dei riformatori: Arnaldo da Brescia, Lutero, Calvino e Savonarola.

Chiesa valdese via IV novembre

La chiesa di via IV novembre ha una storia analoga, ma di poco precedente, a quella del tempio valdese di piazza Cavour. Venne costruita alla fine del XIX secolo, anche grazie all’interessamento del tenente colonnello Giulio Especo y Vera, ex militare dell’esercito pontificio e che da poco aveva aderito alla confessione valdese. Inoltre, ha una storia piuttosto simile a quella delle altre chiese protestanti del centro di Roma, che furono edificate all’indomani della celebre Breccia di Porta Pia, in seguito alla quale Roma non fu più sotto il dominio dei papi, accogliendo finalmente e ufficialmente anche le altre religioni. Oggi questa e le altre chiese protestanti di Roma contribuiscono a quello che è il ricco mosaico religioso presente in città.

Si parla di chiese protestanti, ovviamente, ma è opportuno ricordarsi che la chiesa valdese ha una sua storia molto particolare e che pur facendo oggi parte del protestantesimo è nata ben prima di esso, condividendone alcune istanze già nel pieno medioevo, tra XII e XIII secolo, come per esempio la predicazione universale – da sempre molto importante per il movimento valdese –, da subito aperta anche alle donne – (Vai alla scheda sulle chiese protestanti in Italia).

Sebbene i Poveri di Lione siano nati per l’appunto in Francia, essi si legarono presto all’Italia e in particolare ad alcune zone del Piemonte, dove si stanziarono maggiormente in età moderna a causa delle persecuzioni che subivano. Solo dopo la Riforma, e in particolare la nascita della chiesa calvinista, si riconobbero in molti degli ideali professati da Calvino e Lutero e aderirono a quei cambiamenti che oggi chiamiamo Riforma Protestante, dando così il via a una nuova fase della loro vita come chiesa. La costruzione dei due templi valdesi di Roma (il termine tempio è preferito a quello di chiesa in quanto edificio, perché la Chiesa sono le persone credenti in Cristo) si pone quindi come una delle ultime tappe della storia di questa chiesa, con l’arrivo della tanto sospirata libertà di poter celebrare il proprio culto e la propria fede liberamente, e non è ovviamente un caso se tutte queste chiese protestanti sorgono su vie e piazze in qualche modo legate al Risorgimento. Il movimento ecumenico e l’avvio del dialogo con la chiesa cattolica e le altre chiese e religioni hanno probabilmente segnato una tappa successiva e altrettanto importante. Per quanto riguarda il suo contenuto, il tempio di via quattro novembre non sfugge agli elementi più tipici delle chiese protestanti, pur presentando un’architettura neoclassica e quindi in linea con il contesto circostante, perlopiù risalente alla stessa epoca.

Ha un’unica navata, cosa che favorisce la concentrazione sull’elemento centrale: la Parola (solitamente infatti al centro c’è una Bibbia aperta verso chi entra) posta sull’altare e il luogo da cui si discute e si commenta, ovvero il pulpito; le decorazioni sono eleganti e semplici e ovviamente non ci sono statue né raffigurazioni di santi o di Cristo stesso, in quanto le chiese protestanti sono solitamente iconoclaste, e solo la croce campeggia nel catino absidale, a indicare che solo a Gesù, e quindi a Dio, bisogna dare gloria e attenzione. Solo un lato della chiesa dà sulla strada, per cui le vetrate sono vere sul lato sinistro e dipinte sul muro sul lato destro.

Il tempio non è molto grande, e si trova all’interno di un edificio che in parte ne nasconde la natura, ma questo deve far pensare ancora di più al valore simbolico che si voleva dare alla costruzione di questo luogo di culto, peraltro fatto da una comunità di modeste dimensioni e che solo alcuni anni dopo sarebbe riuscita a costruire anche il tempio che si affaccia su piazza Cavour. Questo però non impedisce alla chiesa di avere un organo, costruito dall’impresa torinese Vegezzi Bossi nel 1954 e oggi protetto in quanto oggetto d’epoca.

La chiesa valdese di via 4 novembre si colloca quindi come simbolo e testimonianza di una comunità relativamente nuova affacciatasi sulla realtà romana e oggi pienamente integrata nella città, pronta ad accogliere chiunque voglia entrare, come testimoniano le sempre amichevoli insegne poste all’ingresso, su un luogo di così forte passaggio.

Chiesa Evangelica Battista di via delle spighe

Di grande rilievo, è anche la Chiesa Battista di via delle Spighe nel quartiere Alessandrino costruita nel 1948. La sua storia ha inizio con la missione dell’Istituto Taylor che sin dal 1923 si è dedicato a chi si trova nel bisogno, gli orfani prima, gli anziani oggi.

Da quest’opera non è nata solo la chiesa: nel 1948 è stato costruito il tempio e successivamente anche le sale d’incontro, in viale della Bella Villa 31 e le aree verdi circostanti. Nel 2017 vi si sono trasferiti anche gli uffici amministrativi dell’Unione Cristiana Evangelica Battista in Italia (UCEBI), – che collega tra loro le chiese, per formare oggi un piccolo villaggio battista; ogni chiesa è autonoma e decide in loco le proprie attività e convinzioni teologiche.

La loro comunione si espande sia a livello confessionale nell’ecumenismo con le altre chiese cristiane e nel dialogo con le altre religioni, sia a livello internazionale e vede il Battismo tra i protagonisti del Consiglio Mondiale delle Chiese. I locali vengono condivisi con chiese anche di altre denominazioni ed etnie con degli incontri che avvengono due/tre volte l’anno per pregare Dio insieme e ringraziare per la pluralità della sua creazione. Una condivisione che permette la vicinanza, favorisce la conoscenza e forma il rispetto tra diversi.

La chiesa, anche grazie alla cooperazione con altre associazioni, offre vari servizi al quartiere che sono tutti gratuiti e aperti al pubblico:

– Doposcuola frequentato particolarmente da scolari/e che sono arrivati/e con le loro famiglie da oltre mare e fanno fatica ad ambientarsi nella scuola e in società;

– Corsi di lingua italiana per stranieri dal livello A1 fino a B2 in cooperazione con l’associazione Keccevò;

– Un servizio gratuito di ascolto psicologico (Psicologia Clinica e Psicoterapia Psicodinamica) dell’Associazione Fortuna, insieme all’istituto G.B. Taylor.

La chiesa è iscritta nel programma eco-comunità della Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, evita lo spreco, compra equo solidale, controlla i propri consumi, affinché l’impronta che lascia sulla terra sia sostenibile e inoltre, coopera con il Community Organizing che unisce scuole, associazioni, chiese e religioni del quartiere per migliorare la condizione sociale della città. La domenica viene svolto il culto domenicale e successivamente l’agape, il pranzo comunitario. Vengono offerti anche diversi appuntamenti di studio biblico-teologico settimanali così come corsi basati sulle fondamenta della fede evangelica, incontri settimanali di preghiera, corsi di auto-consapevolezza femminile, incontri pedagogici di teatro fisico, opportunità di discussione e confronto in incontri moderati o assemblee strutturate, concerti, spettacoli teatrali e conferenze pubbliche.

Pietre di inciampo

Le “Pietre d’inciampo” ( in tedesco Stolpersteine) sono una iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig in memoria di cittadini deportati nei campi di sterminio nazisti. L’iniziativa è partita nel 1995, a Colonia. In tutta Europa oggi si contano più di 27mila “pietre” in Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi e anche in Italia.

Materialmente, la memoria consiste in una piccola targa d’ottone della dimensione di un sampietrino (10 x 10 cm), posta davanti alla porta della casa in cui abitò il deportato, sulla quale sono incisi il nome della persona deportata, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione e la data di morte, se conosciuta, per ricordare chi si voleva ridurre soltanto a un numero. Un inciampo non fisico, dunque, ma visivo e mentale, per far fermare a riflettere chi vi passa vicino.
La maggior parte delle “pietre d’inciampo” ricordano vittime ebree dell’Olocausto, ma ce ne sono alcune in memoria di persone, gruppi etnici e religiosi ritenuti “indesiderabili” dalla dottrina nazista: omosessuali, oppositori politici, Rom, Sinti, testimoni di Geova, pentecostali, malati di mente, portatori di handicap, ecc.

A Roma, le prime 30 pietre d’inciampo in Italia furono collocate il 28 gennaio 2010, in occasione del giorno della Memoria. Oggi sono più di 150, in diversi quartieri della città: al Ghetto, a Monteverde, al Pigneto (in memoria di deportati politici).

Le Stolpersteine sono finanziate da sottoscrizioni private; il costo di ognuna, compresa l’installazione, è di 100 euro. Presso la Biblioteca della Casa della Memoria e della Storia è sempre attivo uno “sportello” a cui possono rivolgersi quanti intendono ricordare familiari o amici deportati attraverso la collocazione di una Stolpersteine davanti alla loro abitazione.

La Grande Moschea di Roma (Centro culturale Islamico)

Il Centro Islamico culturale d’Italia – Grande Moschea di Roma progettato dall’architetto Paolo Portoghesi, è senz’altro il luogo di culto islamico maggiormente visitato insieme ad alcune associazioni culturali islamiche presenti nei diversi quartieri romani. Nei giorni di principali festività, come la Festa del Sacrificio, si registra un afflusso di circa 30.000 – 40.000 persone, delle più diverse origini. La moschea è un punto d’aggregazione e di riferimento in campo religioso e fornisce anche servizi culturali e sociali connessi all’appartenenza alla fede islamica: celebrazione di matrimoni, assistenza per i funerali, convegni e molto altro.

La Grande moschea di Roma è opera dell’architetto italiano Paolo Portoghesi e dell’architetto iracheno Sami Mousawi, che hanno tentato di realizzare una sintesi tra diverse tradizioni architettoniche e culturali; dalla tipologia persiana alle moschee ottomane, dagli archi intrecciati caratteristici della Spagna medievale alle piccole cupole ispirate al barocco occidentale di Borromini. La costruzione è stata finanziata dal re Faysal dell’Arabia Saudita e inaugurata nel 1995 dall’ambasciatore del regno del Marocco Zine El Abidine Sebti. In quell’occasione, l’ambasciatore disse: “la fondazione del Centro Islamico culturale a Roma non mira a propagandare l’Islam ma a far conoscere la vera filosofia dell’Islam e la storia della civiltà araba e islamica e ad arricchire il dialogo e l’armonia fra i seguaci della religione musulmana e della religione cristiana”.

La sua costruzione ha richiesto più di vent’anni: la prima pietra fu posta nel 1984, (anno 1362 dell’egira), dieci anni dopo la prima donazione del terreno, alla presenza dell’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini. L’inaugurazione avvenne il 21 giugno 1995, giorno del solstizio d’estate.

Secondo Paolo Portoghesi, una caratteristica essenziale dell’architettura islamica è di aver prodotto linguaggi molto diversi tra di loro, durante la diffusione nei paesi orientali. Per questo motivo, il progetto architettonico cerca un incontro con la storia e la tradizione locale, ad esempio attraverso l’utilizzo di materiali che generano colori tipicamente romani, come il travertino e il cotto rosato. Per lo stesso motivo, l’edificio prende spunto da più di un modello di moschea:

  • quello “della foresta”, caratteristico del Magreb e della Grande moschea di Cordova, nella Spagna meridionale;
  • quello della moschea ottomana, esemplificato dall’architetto turco Sinān;
  • quello della moschea persiana, caratterizzato dall’alternanza tra grandi corti e spazi aperti.

L’interno

Nella struttura, colpisce il mix tra pensiero moderno della struttura e linee curve onnipresenti (la grande sala di preghiera richiama indubbiamente una foresta – o un’oasi, con le sue colonne a tre steli), l’uso della luce per creare un clima meditativo. L’apparato decorativo, è costituito da ceramiche invetriate di colori delicati. Il tema coranico ripetuto è “Allah è luce”.

È il luogo della preghiera collettiva e obbligatoria (ṣalāt) del mezzogiorno (ẓuhr) del venerdì, o eventualmente per studiarvi materie di carattere religioso, in luoghi a ciò deputati (iwan). È possibile inoltre pregare anche all’aperto, o dentro una casa qualsiasi, purché il terreno riservato alla ṣalāt, sia delimitato da qualche oggetto (tappeto, stuoia, mantello, telo, sassi) e sia il più possibile pulito. La moschea ha un miḥrāb, abside o nicchia che, nelle moschee più umili, può essere semplicemente disegnata su una parete o indicata da qualche oggetto nella preghiera all’aperto che indica la direzione della Mecca (qibla) della Ka’ba, considerata il primo santuario musulmano dedicato al culto di Dio. Una moschea può spesso avere anche un pulpito minrab dall’alto del quale un particolare Imām che si chiama khaṭīb, pronuncia la khuṭba.

La preghiera deve essere compiuta all’interno di precisi momenti (awqāt) della giornata, scanditi dall’andamento apparente del sole. Per questo, un incaricato muezzin, (muʾadhdhin), ricorda dall’alto di una costruzione a torre, il minareto, (manār, “faro”), mediante un suo richiamo rituale salmodiato (adhān), che da quel momento in poi è obbligatorio pregare (in casa, all’aperto, in moschea). Per chi si trovi lontano dal minareto e non possa per qualsiasi motivo udire la voce del muezzìn – oggi aiutata per lo più da altoparlanti – si sciorinano talora ampi panni bianchi, ben visibili anche da lontano. Per le necessità della purificazione, sia all’interno sia nelle immediate adiacenze della moschea è spesso presente una fontana. L’area della preghiera (muṣalla) è rettangolare, per consentire agli oranti di ordinarsi in file e ranghi, e al cui interno può esservi un orologio che in molte occasioni è di antica fattura, utile a segnalare il tempo rimanente perché sia valida la preghiera. Non ci sono raffigurazioni umane o animali, in quanto non permesse. Le decorazioni sono legate al mondo vegetale oppure sono presenti mosaici e scritte che riportano versetti del Corano tracciati con calligrafie, gli arabeschi.

Moschea Al Huda di Centocelle

La moschea “Al-Huda” in via dei Frassini, 4, nel quartiere di Centocelle, è la seconda moschea di Roma. Qui ha sede l’Associazione Culturale Islamica In Italia, fondata nel Marzo del 1994. Le molteplici attività che vengono svolte dall’Associazione, ne fanno un sicuro punto di riferimento per i musulmani della capitale ma anche per i non musulmani che possono frequentare i corsi di arabo per adulti e bambini, e le lezioni di cultura e religione islamica, che si svolgono nella scuola comunale “San Benedetto”, grazie alla collaborazione con l’ex VII Municipio e il dirigente scolastico dell’Istituto. Inoltre è possibile consultare o acquistare nella biblioteca testi in italiano e in arabo. Oltre a queste attività sono organizzate anche cene di gruppo, iftar, durante tutto il mese del Ramadan; partecipazione alle attività di altre associazioni; vendita di libri di cultura arabo-musulmana in arabo e in italiano. Nella moschea si svolgono le cinque preghiere quotidiane alle quali partecipano i musulmani di diverse nazionalità.

Moschea della Magliana

La moschea “El Fath” di Roma e Lazio, meglio conosciuta come “Moschea della Magliana”, è una delle prime costruite a Roma, precisamente nel 1994. Sita in via della Magliana, 76 F, il Centro Islamico è impegnato nel dialogo interreligioso e interculturale, ed è un punto di riferimento per la comunità musulmana che vive a Roma.

Al suo interno possiamo trovare le sale di preghiera, tra cui una dedicata alle donne. Nella sala principale troviamo il Mihrab, la nicchia che indica la direzione della Mecca, e il Minbar, dove l’Imam sale per fare il suo discorso soprattutto nel giorno santo del venerdì, in cui sono ospitati migliaia di fedeli. I tappeti sono tutti orientati verso la direzione della Mecca e numerose sono le copie del Corano disponibili, il libro sacro per i musulmani. Nella moschea si svolgono le cinque preghiere quotidiane e la preghiera comunitaria e obbligatoria a cui partecipano musulmani di diverse nazionalità tra cui tunisini, algerini, egiziani, senegalesi, bangladesi, ecc. I messaggi infatti sono sempre scritti sia in arabo che in italiano.

La moschea offre inoltre la possibilità di frequentare i corsi di arabo per adulti e bambini e si occupa della divulgazione e alfabetizzazione sulla religione e la cultura islamica anche per la comunità italiana. Il centro islamico “El Fath” si basa su precisi obiettivi: facilitare l’integrazione della comunità islamica, ricordando che è possibile vivere insieme e che l’Islam può fornire un contributo positivo alla società italiana. Oltre ad essere un luogo di preghiera infatti, è molto importante il suo ruolo sociale.  

Molteplici sono i servizi e le attività offerti alla comunità islamica come: matrimoni, consulenze, formazione e istruzione, condivisione delle festività islamiche, funerali e visite assistenziali nelle carceri e negli ospedali. Vi è anche una collaborazione da parte della moschea in ambito medico e sociale per fornire aiuto in tutti i campi: culturale, religioso, umano, come spesso l’allestimento di una delle sale di preghiera per le donazioni del sangue. È noto l’impegno dell’Imam Sami Salem e dell’associazione islamica: scuola, università, incontro con le comunità religiose e con le istituzioni.

Numerosi sono i momenti di condivisione delle festività come gli iftar di gruppo, durante tutto il mese del Ramadan che vedono anche la partecipazione e la presenza di altre associazioni e comunità religiose, o la grande festa dell’Eid Al Fitr che viene celebrata in piazza della Radio per dare a tutti la possibilità di partecipare.

Chiesa ortodossa russa di S. Caterina Martire

La chiesa di Santa Caterina Martire (o Santa Caterina d’Alessandria) è una parrocchia per i fedeli cristiani ortodossi della città di Roma, per lo più russi, ucraini, moldavi e bulgari.

Nel maggio 2000 al Comune di Roma è stato presentato il progetto di Andrej Obolenskij, direttore del Centro di costruzioni artistiche «Archkram» del patriarcato di Mosca, che prevedeva la costruzione della chiesa nel comprensorio in proprietà della Federazione Russa, adiacente alla residenza dell’Ambasciatore della Federazione Russa a Villa Abamelek, all’angolo di Via Lago Terrione e Via delle Fornaci. La storia della costruzione della Chiesa Ortodossa di Roma, inizia in tempi molto antichi. Parliamo infatti di un periodo che risale agli inizi dell’800, quando ad occuparsi del progetto di realizzazione della Chiesa era l’Imperatore Alessandro I. In quasi due secoli di storia la comunità Ortodossa ha sempre partecipato attivamente alla realizzazione dei vari progetti per la Chiesa che si sono sviluppati nel tempo, attraverso la raccolta di fondi. Dalla fine dell’800, fino alla fine del XX secolo, la Chiesa Ortodossa ha avuto diverse sedi, tutte ad ogni modo legate con la Federazione Russa.

La Chiesa prende il nome di Santa Caterina Martire (o Santa Caterina d’Alessandria). Voluta fortemente dalla comunità ortodossa Russa, nell’ottobre del 1999 l’Ambasciata della Federazione Russa a Roma ha fatto formale richiesta al Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana ed al Comune di Roma per ottenere la possibilità di costruire l’edificio. Il progetto vero e proprio fu presentato al Comune di Roma un anno dopo. Il disegno prevedeva la costruzione della Chiesa Ortodossa nel comprensorio della Federazione Russa, dove è tutt’ora. L’ attuale Chiesa Ortodossa di Roma si trova all’interno del Parco Villa Abamelek, ai piedi del Gianicolo, vicino Porta di San Pancrazio. L’interno della villa è sede dell’Ambasciata Russa. La Chiesa è stata progettata di un’altezza pari a 29 m con una superficie generale di 698,04 m², per un volume generale di 5056,28 m³.

La realizzazione del progetto è stata approvata nel 2001, e nel 2002 la licenza edilizia. Il 14 gennaio 2001, alla presenza dei Ministri degli Esteri italiano e russo, Igor Ivanov e Lamberto Dini, si è svolta la cerimonia della posa della prima pietra, benedetta dall’arcivescovo di Korsun’ Innokentij. Il 19 maggio 2006 ha avuto luogo la consacrazione della chiesa minore, nel dicembre 2007 vi è stata la consacrazione della cripta, dedicata ai santi Costantino ed Elena. Il 23 maggio 2009 è avvenuta la cerimonia di inaugurazione della chiesa maggiore.

Chiesa ortodossa di San Nicola Taumaturgo

Dire da quanto tempo sia presente la chiesa ortodossa in Italia è in realtà più difficile di quanto possa sembrare. Fino al 1054 tutta la chiesa era unita e quindi, in un certo senso, ortodossa.

Presenze greche (legate alle tradizioni bizantine) e in seguito albanesi (soprattutto dal Cinquecento) resero più o meno sempre presente la chiesa ortodossa (o – per meglio dire – bizantina, che dell’Ortodossia è la maggiore espressione) in terra italiana.

La chiesa russa però non appartiene del tutto a tale filone storico-culturale, ed è arrivata in Italia e a Roma in tempi e modalità diversi. Più che di semplice chiesa come edificio, si potrebbe forse parlare di comunità di san Nicola, che per lungo tempo corrispose alla comunità russa di Roma. Andando con ordine, le origini di questa comunità sono in realtà diplomatiche: all’inizio dell’Ottocento, venne inaugurata a Palazzo Odescalchi (in piazza Santi Apostoli), dove allora risiedeva la missione diplomatica russa, una cappella riservata a chi lavorava lì, e non era ovviamente concessa una libertà di culto generalizzata. Per decenni dunque la sede di una chiesa destinata a questo uso venne spostata di luogo in luogo, da via del Corso a Palazzo Giustiniani, e fu solo con l’arrivo dell’Italia laica e della donazione della principessa Černyševa della sua residenza, che questa ebbe la sua attuale collocazione a via Palestro, in modo definitivo dagli anni ’30 del Novecento. La chiesa si trova in quella che era la sala principale del palazzo, al piano terra, e per questo non è grandissima.

Come nella maggioranza delle chiese ortodosse, il luogo più decorato e rappresentativo è quello dell’iconostasi e lo spazio retrostante, il santuario. Nelle chiese ortodosse, infatti, a partire dal XIII secolo si è iniziato a separare lo spazio dell’altare (il santuario, appunto) dal resto della chiesa, analogamente a quanto succedeva anche in occidente nelle chiese gotiche con l’introduzione del pontile.

L’iconostasi, però, non è semplicemente una barriera che delimita l’area più sacra della chiesa, ma è una vera e propria parete, a volte alta fino al soffitto, che cela i misteri che vengono celebrati sull’altare, a ricordo del Tempio di Gerusalemme, e che è accessibile solo da tre porte che possono essere attraversate solo dagli addetti all’altare (vescovi, preti, diaconi, ministranti e alcuni monaci e monache): queste porte si chiamano porte diaconali (perché hanno di solito su di loro le raffigurazioni di santo Stefano e di san Lorenzo e vengono attraversate soprattutto dal diacono), poste ai lati, e porte regali quelle poste al centro, che possono essere attraversate solo dai ministri ordinati e solo per motivi liturgici. L’altare dunque al di fuori delle celebrazioni non è visibile. Questo è riflesso della teologia ortodossa, in parte diversa da quella cattolica, che non cerca di spiegare tutto solo razionalmente ma che cerca sempre di preservare il mistero che viene celebrato nel culto, solo parzialmente comprensibile all’uomo.

Ogni chiesa ortodossa è molto ricca di immagini, cosa ereditata dalla lotta contro l’iconoclastia – collocate in luoghi ben precisi e stabiliti dai canoni conciliari – e anche questa non fa eccezione: le icone, della prima metà dell’Ottocento, sono opera del celebre pittore Karl Pavlovič Bryullov, del pittore di origine italiana Bruni, di Hoffman Markov e Basin. Di queste, forse le più interessanti sono quelle di Bryullov, artista romantico e non credente, che dipinse pochi soggetti religiosi (il suo dipinto più famoso sono gli Ultimi giorni di Pompei), sepolto peraltro nel cimitero acattolico di Testaccio. Suoi sono i sei medaglioni sulle porte regali, che raffigurano gli evangelisti, Maria e l’arcangelo Gabriele, su un modello evidentemente ispirato a Raffaello.

Parrocchia cristiano-ortodossa romena Esaltazione della Santa Croce

Ci sono anche molte altre chiese ortodosse romene, spesso ospitate in locali di altre chiese cattoliche, come la parrocchia dell’Esaltazione o Elevazione della Santa Croce in zona Tuscolana. Un luogo di culto che è diventato punto di riferimento per i tanti fedeli ortodossi di origine romena che provengono da tutta la città di Roma. La parrocchia Cristiano-Ortodossa Romena «Esaltazione della Santa Croce» è gestita dal pastore Padre Cipriano. Si trova a Roma, precisamente in via A. Viviani. Il luogo di culto – l’edificio – appartiene da principio alla Chiesa cattolica; la Chiesa delle Suore dell’Assunzione ha dato in gestione una parte dell’edificio alla comunità ortodossa, appunto, romena. Il nome Esaltazione della Santa Croce rimanda al termine «esaltazione» inteso come innalzamento e si riferisce a quando la Croce di Cristo venne sollevata e alle conseguenze storiche e spirituali che avvolsero l’evento.

Basilica di Santa Sofia a Roma

La basilica di Santa Sofia è un luogo di culto greco-cattolico situato in via Boccea 478, a Roma. È un luogo sussidiario della parrocchia di Santa Maria della Presentazione ed è la chiesa nazionale degli ucraini a Roma.

A volere la sua costruzione, nel 1963, dopo la prigionia in un gulag siberiano, fu l’arcieparca Josyf Slipyj che, raccolti i fondi, ne affidò i lavori all’architetto italiano Lucio Di Stefano. La costruzione iniziò nel giugno del 1967 e terminò nel settembre del 1969, mese in cui venne consacrata alla presenza di papa Paolo VI e di diciassette vescovi. La cerimonia di consacrazione venne accompagnata dal coro femminile di Monaco di Baviera “Dibrova” diretto da Maria Teodorivna Harabach. La chiesa è dedicata alla Divina Sapienza, la “Sofia greca”. Nata per la comunità della chiesa greco-cattolica ucraina, si ispira alla cattedrale di Santa Sofia a Kiev; molte sono le similitudini come le cinque cupolette in stile neobizantino dai tetti dorati. I mosaici dell’altare sono dell’artista ucraino Svyatoslav Hordynsky.

Nel 1985 papa Giovanni Paolo II le assegnò il titolo cardinalizio di “Santa Sofia a Via Boccea”. Il primo titolare fu Myroslav Ivan Ljubačivs’kyj e il secondo Ljubomyr Huzar. Con decreto del 21 gennaio 1998 la chiesa venne elevata al rango di basilica minore.

L’Associazione “Santa Sofia” che è la legittima proprietaria della chiesa e degli edifici annessi, si è occupata dei lavori di restauro conclusi nel settembre 2011. Uno dei lavori più importanti è stato il restauro del prezioso mosaico che copre le pareti del tempio. Il 14 ottobre 2012, nel corso di una solenne divina liturgia presieduta dall’arcivescovo maggiore Sua Beatitudine Svjatoslav Ševčuk e concelebrata da altri prelati, si tenne la benedizione della restaurata basilica di Santa Sofia.

L’interno della chiesa è coperto da mosaici realizzati dalla scuola Monticelli Marcus Tullius. Il più importante è il mosaico della Divina Sapienza, e della Santa Eucaristia. Sopra la sedia del celebrante vi è lo stemma del cardinale Josyp Slipyj con il motto per aspera ad astra (attraverso le difficoltà alle stelle).

Alla destra dell’abside vi è la sacrestia e a sinistra un’icona mosaico con l’ingresso alla cripta. La cupola raffigura Cristo Pantocratore, gli angeli e gli arcangeli e sulle vetrate della cupola sono raffigurati otto metropoliti. La decorazione artistica dell’edificio venne progettata da Svjatoslav Hordynskyj.

Vi è inoltre una bellissima iconostasi progettata da Sviatoslav Gordinsky. Il lavoro in marmo è stato eseguito da Ugo Macesei e le icone sono state dipinte da altri artisti.

Oltre alle reliquie di papa Clemente I, trasferite dalla basilica di San Clemente al Laterano e poste sotto l’altare maggiore della basilica, nella cripta sono sepolti: il metropolita Josyf Sembratowicz (prima sepolto al cimitero del Verano), l’arcivescovo Ivan Bucko, i vescovi Stepan Chmil’ e Ivan Choma, il fondatore dell’Associazione delle cooperative ucraine e politico Julijan Pawłykowśkyj, le principesse Theresia e Jadwiga Sapieha, l’archimandrita delle Suore dell’Ordine di San Basilio Magno Claudia Feddish e Gregorius Smereka, studente all’Università cattolica ucraina a Roma. Un tempo vi era sepolto anche il cardinale Josyp Slipyj. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’indipendenza del suo paese, la sua salma venne traslata nella cattedrale di San Giorgio a Leopoli e sepolta accanto a quella del metropolita Andrej Szeptycki.

Nella piazza principale è presente una fontana con una scultura con tre angeli opera di Ugo Macei. Sono quattro i gradini di marmo che conducono alla basilica. Essi simboleggiano le quattro virtù cardinali: prudenza, giustizia, temperanza e fortezza. Vicino alla chiesa si trova l’edificio che fu sede dell’Università cattolica ucraina a Roma.

Dopo la liturgia, è solito per i fedeli incontrarsi nella sala parrocchiale per organizzare feste e ricevimenti. È molto viva infatti la presenza della comunità ucraina in questo luogo di culto, vero e proprio punto di riferimento.

Sant’Antonio Abate all’Esquilino

Sant’Antonio Abate all’Esquilino è una chiesa cattolica di rito-bizantino, che si trova a Roma nel rione Esquilino, in via Carlo Alberto. Dopo che i lavori per l’apertura di via dei Fori Imperiali portarono all’abbattimento della chiesa di San Lorenzo ai Monti, i cattolici russi di rito bizantino, rimasti senza una sede stabile, si videro assegnare nel 1928 la chiesa di Sant’Antonio Abate all’Esquilino mentre gli edifici annessi furono trasformati nel Pontificio Collegio Russicum, centro di studi russi ed orientali. La chiesa e le sue adiacenze furono acquistate dalla Santa Sede.

Fondata nel 1308, la chiesa affonda le proprie radici storiche nel V secolo d.C., quando papa Simplicio promosse un’opera di riconversione urbana di ambienti di tipo civile in luoghi di culto. Dopo che il generale goto Valila aveva donato un’aula absidata appartenente alla domus del console Giunio Annio Bassio, sorse quindi la chiesa di sant’Andrea Catabarbara (catà barbarum patricium, ossia “presso il barbaro patrizio”) che fu poi parzialmente inglobata in Sant’Antonio all’Esquilino, come mostrano alcuni frammenti della navata sinistra risalenti al IX secolo.

Il portale romanico inserito nella facciata è ciò che rimane dell’ospedale situato accanto a Sant’Andrea Catabarbara (oggi chiesa scomparsa) per accogliere i malati affetti da malattie della pelle, in particolare dal cosiddetto “Fuoco di Sant’Antonio”. Un aneddoto interessante è legato alla possibilità che il rettore della struttura ospedaliera aveva di partecipare alla mensa papale, privilegio da lui sfruttato per destinare gli avanzi ai ricoverati. Nel corso dei secoli la chiesa ha subìto diversi rimaneggiamenti e restauri, e nel 1870 vide lo spostamento dell’ingresso dalla piazza – dove si celebrava la benedizione degli animali in occasione della festa di sant’Antonio, il 17 gennaio – alla doppia rampa di scale in via Carlo Alberto, a seguito di sbancamenti che abbassarono il livello della strada.

L’interno presenta tre navate, con due cappelle al termine di quelle laterali, e l’arredamento corrisponde ai canoni del rito bizantino: l’iconostasi dorata a tre porte, che fu commissionata al pittore russo Grigorij Pavlovic Maltzeff, divide la navata centrale dal coro, e il presbiterio si configura come palcoscenico delle celebrazioni e dei canti liturgici della ritualità bizantina. Una dimensione centrale, quella cantata, poiché veicolante il senso delle Scritture nella sua funzione estetica e contemplativa del divino. Oggi, accanto alla chiesa, nell’edificio dell’antico ospedale si trova il Pontificio Collegio Russicum, un centro dedicato agli studi sulla cultura e la spiritualità russa e orientale affidato alla Compagnia di Gesù, in cui hanno la possibilità di alloggiare e studiare studenti di confessione cattolica e ortodossa. Qui, nella sala del refettorio, sono da ammirare le opere d’arte di un iconografo di fama mondiale, il sacerdote tedesco, gesuita, studioso e critico d’arte padre Egon Sendler, allievo del Russicum.

Tempio buddhista cinese Hua Yi SI

Il tempio buddhista cinese Hua Yi Si (letteralmente Hua = Cina, Yi = Italia, Si = tempio), situato in via dell’Omo 142, è stato inaugurato nel 2013 ed è il più grande tempio buddhista cinese d’Europa. L’edificio è stato costruito grazie alle offerte della popolazione cinese, che tra Roma e provincia conta tra le 5mila e le 7mila unità e alle donazioni arrivate dalla Cina e da Taiwan, luogo di provenienza dei maestri del tempio, ispirato proprio all’imponente struttura di Chuang Tai. Per ricordare la generosità dei principali donatori esteri, su alcune pareti del tempio sono conservate statuette del Buddha recanti targhette con i nomi dei finanziatori.

La costruzione di questo colosso di architettura cinese non è stata semplice. Il comune di Roma aveva fermato i lavori per diverso tempo allo scopo di effettuare i controlli necessari previsti dalla “Legge sul governo del territorio” del 12/2005, che vincola la costruzione dei nuovi luoghi di culto a determinati criteri urbanistici. Il progetto del tempio è risultato infine attuabile poiché la zona in cui sorge è un’area commerciale periferica della città, costruita prevalentemente con capannoni industriali e quasi priva di residenti; l’edificio non ha quindi suscitato lamentele né proteste per la sua “discontinuità” con il paesaggio urbano circostante. La forma del tempio è quella tipica cinese a “pagoda”, uno stile non originario della Cina ma frutto dell’influenza straniera sull’architettura cinese. La pagoda rappresenta infatti un’evoluzione dello stupa buddhista indiano, monumento in cui venivano conservate le reliquie del Buddha e gli oggetti religiosi sacri. Nel cortile antistante, come da tradizione, la statua di un leone, simbolo di protezione e forza.

Per entrare bisogna oltrepassare un alto pannello, perché si abbia il tempo di ricordare la sacralità del luogo, prima di varcare la soglia. Appena all’interno troviamo il Buddha ridente, il Bodhisattva Maitreya, che porta via la tristezza e simboleggia la prosperità.

In alto ci sono numerose raffigurazioni di fiori di loto, emblema di purezza e simbolo del risveglio. Molto suggestiva è la grande sala di meditazione che permette di osservare le numerose statue del Buddha e di riflettere insieme alle monache, guide del tempio, sui significati dei simboli della tradizione buddhista cinese.

Il Tempio buddhista Zen Anshin

Un altro centro buddhista che accoglie gli studenti in visita, è sito nel cuore di Roma, nel quartiere Trastevere. A poca distanza dal centro storico, il Tempio Anshin (Pace del cuore) è sostenuto dai monaci Doryu (Guglielmo Cappelli) e Gyoetsu (Annamaria Epifanìa), sposati secondo l’usanza del Buddhismo Zen Soto che insieme all’Unione Buddhista Italiana – sigla il proprio rapporto con lo Stato Italiano attraverso l’intesa del 2012 (già riconosciuto culto dal 1993). Questo riconoscimento è importante anche per rappresentare un luogo armonico e di concentrazione di tutta la comunità (ovvero Sangha, uno dei tre gioielli dettati dal Buddha). Un luogo dove assieme alle pratiche spirituali si addensano anche quelle relative alla corporeità stessa, agli insegnamenti sulla corretta postura nella meditazione – che è già essa stessa meditazione -, alla Danza e all’ospitalità. L’ospitalità rappresenta un nodo interessante nella vita quotidiana del Tempio, difatti, all’interno del caratteristico giardino Zen si annida un familiare B&B dove, turisti e curiosi, possono avvicinarsi alla pratica come una piacevole esperienza.

Grazie ai suoi maestri e monaci Zen Soto, discepoli del Maestro Shohaku Okumura, molte sono le attività proposte, aperte a tutti:

Attività di Dharma e Pratica di Zazen (meditazione seduta), Kinhin (meditazione camminata), Introduzione allo Zazen per principianti, Insegnamenti, gruppi di studio e condivisioni, Cerimonie con recitazione di Sutra (testi sacri), Celebrazioni di ricorrenze buddhiste, Giornate di pratica intensiva (Sesshin), Zazen, Samu (attività manuali), pasti formali (Oryoki), insegnamenti, Conferenze di docenti ospiti, iniziative editoriali, proiezioni di film, Iniziative di solidarietà, incontri con le scuole, dialogo interreligioso.

Centro di meditazione Nuova Tradizione Kadampa

Il Centro di Meditazione Kadampa è un centro di meditazione buddista, membro della Nuova Tradizione Kadampa, l’Unione Internazionale del Buddismo Kadampa, dal monaco tibetano Geshe Kelsang Gyatso, lama residente dell’oggi Manjushri Kadampa Meditation Centre. Fino al 2020 si trovava a Roma, nel quartiere Trastevere in via della Pelliccia, 1. Ad oggi le attività sono sospese in attesa di una nuova sede.

La tradizione Kadampa ha sviluppato un metodo che permette di praticare gli insegnamenti di Buddha nella vita contemporanea. La New Kadampa Tradition – con i suoi circa 1.100 centri e sedi in 40 nazioni – è uno dei movimenti tibetani occidentali in più rapida crescita.

Il Centro di Meditazione Kadampa a Roma, che ha come insegnante residente il monaco Kelsang Chö, organizza ritiri, seminari ed eventi speciali, incontri con le scuole e con le aziende e offre un programma generale di corsi che insegnano a trarre beneficio dalla meditazione e dagli insegnamenti di Buddha mettendoli in pratica già dalla prima lezione, pur senza diventare necessariamente buddhisti, nella logica espressa dal fondatore Geshe Kelsang Gyatso: “Sebbene diamo per assunto che i nostri problemi siano all’esterno, in realtà tutta la nostra felicità così come i problemi sono creati dalla nostra mente e dalle azioni che compiamo. Imparando a sviluppare uno stato di mente pacifico e altruistico, potremo ottenere ciò che abbiamo sempre desiderato ma non siamo ancora riusciti ad ottenere: felicità permanente e libertà da ogni tipo di sofferenza”.

I monaci residenti Gen Kelsang Chö e Kelsang Tsodog, sono anche insegnanti del centro, insieme ad altri praticanti che danno il loro supporto nell’organizzazione delle attività e nella trasmissione degli insegnamenti. Tutti possono partecipare alle conferenze, ai seminari, e ai diversi tipi di corsi sulla meditazione e sul buddhismo.

Gurdwara Sri Guru Hargobind Sahib

Il Gurdwara “Sri Guru Hargobind Sahib” si trova nel quartiere di Casal Lumbroso ed è un luogo di culto e di ritrovo a Roma per i tanti sikh presenti nel territorio laziale.

Attivo come associazione dal 2008, è un tempio piccolo ma ricco di storia e tradizioni, che ospita alcune delle visite ai luoghi di culto proposte dal Centro Astalli alle scuole medie e superiori, nell’ambito delle attività didattiche di Dialogo interreligioso.

Pur non molto visibile dall’esterno, una volta entrati si può toccare con mano la sacralità di questo Gurdwara, “casa di Dio”. Qui vengono celebrate le festività più importanti come la Nagar Kirtan, letteralmente “kirtan nel quartiere”. Il termine Nagar Kirtan si riferisce al Sikh Sangat, ovvero una congregazione di Sikh, che canta inni sacri attraversando la città, il cui obiettivo è quello di portare il messaggio di Dio a tutte le comunità. Si tratta nello specifico di un corteo religioso particolarmente comune durante il mese di Vaisakhi (verso aprile) e si svolge in tutto il mondo, ovunque vi siano Sikh. Il corteo di Roma parte proprio da questo tempio per raggiungere il quartiere Esquilino.

Giorno di ritrovo per la comunità sikh in Italia è la domenica; la scelta non deriva da una regola religiosa ma permette alla vasta comunità di poter raggiungere il tempio, trattandosi, per molti fedeli, di un giorno di riposo.

L’importanza del culto comunitario sta nel fatto di poter leggere insieme al celebrante il testo sacro Sri Guru Granth Sahib Ji – contenente gran parte della disciplina sikh, – tuttora considerato come l’ultimo e permanente guru -, a volte di difficile comprensione. Chi celebra il culto è allo stesso livello della comunità ma con un ruolo di maggiore responsabilità nei confronti dell’organizzazione delle attività del tempio e della lettura del testo sacro.

Ogni giorno, ad orari precisi come indicato dalle regole religiose, vengono lette le 5 o 7 preghiere giornaliere, e il Sri Guru Granth Sahib Ji viene fatto riposare la notte, in una stanza dedicata la Sach Khand, che significa “Paradiso” che viene pulita costantemente. Il Guru viene risvegliato verso le 3 del mattino.

Tappeti, stoffe e colori fanno da cornice alla sala di preghiera del tempio. In fondo e al centro, si trova l’altare con il libro sacro, davanti al quale ci si inchina appena si entra e a cui non si danno mai le spalle né si rivolge la pianta dei piedi, coperto da una stoffa tradizionale Rumalla, simbolo di regalità. Davanti al Sri Guru Granth Sahib Ji ci sono le armi, di fondamentale importanza per ogni sikh. Vi è inoltre una panca Golak, dove i fedeli possono lasciare soldi per le offerte al tempio. Il baldacchino intorno al libro sacro è adornato con stoffe colorate Chndhoa, che sono anch’esse sacre. Tutt’intorno e appese sui muri, possiamo notare preghiere tratte dal libro sacro.

Durante il culto, gli uomini sono divisi dalle donne anche se non c’è una vera zona di divisione. Alla fine di esso avviene l’offerta, la Prashad; il cibo offerto al guru e ai fedeli consiste in burro, farina, zucchero e latte. Di notevole importanza è anche il Langar, la cucina comunitaria, aperta a tutti e ad ogni ora del giorno e della notte, costruita e mantenuta attiva grazie alle offerte dei fedeli. Il pasto, preparato e servito da volontari, si gusta seduti a terra sul pavimento, uno accanto all’altro. Condividerlo in questo modo significa trasmettere un senso di uguaglianza e fraternità, oltre l’appartenenza religiosa e lo status sociale.

Guardando l’altare, sulla sinistra vi è una zona dedicata alla musica e ai canti sacri chiamati Kirtan Sahab; il piedistallo che ospita gli strumenti deve essere rigorosamente più basso di quello che ospita il libro sacro. Anche i musicisti sono seduti a terra dietro gli strumenti. Per lo stesso motivo si prega seduti a terra perché l’essere umano stesso non deve superare l’altezza del Guru Granth Sahib.

In questo tempio, frequentato perlopiù da adulti, non vengono ancora proposti corsi di formazione su come leggere correttamente le preghiere, tipico invece dei templi più grandi. Sono svolte però attività musicali Kirtan, e la Gatka, l’arte marziale sikh.

⇒ Letture

Federico Santangelo, La religione dei Romani, Edizioni Laterza, 2021

Conosciamo i nomi degli dèi di Roma, visitiamo le rovine dei templi, ci appassioniamo sempre più alla mitologia pagana. Eppure facciamo fatica a definire cosa fosse la religione dei Romani. È vero che la parola latina religio è solitamente tradotta in italiano con ‘religione’: ma si può davvero parlare di ‘religione’ nell’antica Roma? Che origine avevano gli dèi? Per quali ragioni, con quali intenti e in che modi ci si rivolgeva loro? Ha senso parlare di ‘fede’ nel contesto di una religione politeistica? Una esplorazione appassionante ci condurrà da Roma fino agli angoli più remoti dell’impero, in un percorso alla scoperta di uno degli aspetti meno conosciuti del mondo romano, capace di dischiuderci un universo ignoto.

A cura di Corinne Bonnett – Ennio Sanzi Roma, la città degli dei. La capitale dell’impero come laboratorio religioso, Carocci Editore, 2018

Questa raccolta di saggi tenta di fare una grande panoramica sull’atmosfera religiosa che si poteva respirare a Roma tra la fine del II secolo a. C. e il IV d. C., secoli in cui la città divenne capitale di un impero cosmopolita enorme. Dai territori conquistati e da quelli limitrofi tantissime persone si riversarono a Roma, e con sé portarono i propri culti, soprattutto i culti orientali che tanto affascinavano i Romani e che ancora oggi risultano attraenti per l’uomo moderno. Cibele, Iside e ovviamente Mitra furono solo alcune delle divinità che, come quella del Cristianesimo, vennero importate a Roma e che qui per secoli convissero in modi forse oggi incomprensibili ma che sono assolutamente degni di essere ricordati.

Licia Ferro – Maria Monteleone, Miti Romani. Il racconto, Einaudi, 2014

“Quando il mondo ebbe inizio e Giano tornò ad avere l’aspetto di un dio, poco a poco, si narra, apparvero ovunque le fonti, i laghi, i fiumi, le valli e i monti coperti di boschi. Apparvero pesci nell’acqua, animali sui prati e nelle foreste, uccelli nell’aria. Solo in ultimo fece il suo ingresso l’essere umano. Forse fu in quel momento che Giano si guardò intorno e scelse la sua dimora, una collina coperta allora di querce e farnetti. “Da quassù, – si disse, – potrò godermi ogni cosa, basta solo aspettare”. E da quel colle – Gianicolo lo chiameranno – si dispose a guardare l’inizio del tempo e dello spazio di Roma”. È esistita una mitologia romana?…

 

Amara Lakhous, Divorzio all’islamica a viale Marconi, E/O, 2010

I servizi segreti italiani ricevono un’informativa: un gruppo di immigrati musulmani, che opera a Roma nella zona di viale Marconi, sta preparando un attentato. Per scoprire chi siano i componenti della cellula viene infiltrato Christian Mazzari, un giovane siciliano che parla perfettamente l’arabo. Christian inizia la sua indagine spacciandosi per Issa, un immigrato tunisino in cerca di un posto letto e di un lavoro. Il suo destino si incrocia con quello di Sofia, una giovane immigrata egiziana che indossa il velo e vive nel quartiere assieme al marito Said, alias Felice, architetto reinventatosi pizzaiolo. Nell’alternarsi delle voci di Issa e Sofia si rispecchiano le contraddizioni della società italiana, in un susseguirsi di scene esilaranti e momenti ricchi di pathos.

Marcello Fois, Sheol, Einaudi, 2004

Ruben Massei, ispettore della Squadra Mobile di Roma, si trova a indagare su un caso che riguarda il presente, ma ha radici lontane. Nei pressi di una villa fuori città, tre naziskin e una ricca signora ebrea scompaiono lo stesso giorno, il 4 settembre del 1993. Cinquant’anni prima, in quella stessa villa, una famiglia ebrea stava tentando di sfuggire alla deportazione. Anche se l’indagine gli è stata tolta, Massei continua a indagare, perché quel caso gli parla di lui, delle sue radici, della sua storia privata e delle intersezioni con l’altra Storia, quella di tutti.

⇒ Sapori

Crostata di ricotta e visciole

La ricetta di questo dolce squisito e ormai patrimonio gastronomico di tutti i romani è, come si conviene, segreta. A Roma, in via del Portico d’Ottavia, nel cuore di quello che oggi, per convenzione, si chiama ancora il “ghetto ebraico” c’è una pasticceria senza insegna, dalle vetrine spoglie e un po’ spartana. Per gli ebrei romani questo monumento alla tradizione è Boccione, per tutti gli altri si chiama usando diverse parafrasi: “il forno del ghetto”, “la pasticceria degli ebrei”, “il negozio dei dolci kasher”. Quello che è noto a tutti, invece, è che dal piccolo retrobottega escono delizie incredibili che risalgono ad una tradizione antichissima, dolci di ogni forma e misura secondo le norme alimentari ebraiche.
Questa è una delle molte versioni della ricetta che circolano in rete. Suggeriamo comunque,almeno una volta nella vita, di provare l’originale.

Ingredienti
Per la pasta frolla

400 g di farina 00
200 g di zucchero
200 g di burro a temperatura ambiente
4 tuorli d’uovo
scorza di limone

Per il ripieno

400 g di ricotta romana di pecora
120 g di zucchero
1 uovo
2 cucchiai di sambuca
1 vasetto di confettura di visciole (o ciliegie, ma non è proprio la stessa cosa…)

Lavorazione

Per prima cosa, preparate la frolla. Fate una fontana con farina e zucchero, poi tagliate a pezzetti il burro e mettetelo al centro della fontana. Aggiungete i tuorli sopra il burro e impastate tutti gli ingredienti il più velocemente possibile, fino a formare una palla liscia. Avvolgete la pasta frolla nella pellicola da cucina e lasciatela riposare in frigorifero per almeno 30 minuti prima di utilizzarla. Quando la frolla è fredda, imburrate e infarinate una teglia da 24 cm e schiacciate l’impasto sul fondo, tenendone da parte abbastanza per fare le strisce decorative tipiche della crostata da disporre sulla superficie del dolce.
Spalmate uno strato di marmellata sulla frolla cruda; a parte, in una ciotola mescolate la ricotta con lo zucchero, l’uovo e il liquore, poi versate tutto nella teglia.
Decorate il dolce con le strisce di pasta frolla come per una crostata comune (o, se volete farla secondo la versione del Ghetto, copritela completamente con un altro strato di pasta frolla) e infornate a 180° fino alla completa doratura, per circa un’ora, considerando che il tempo di cottura dipende anche dalla larghezza dello stampo e dallo spessore della frolla e della crema. Controllate ai 45 minuti e poi lasciate cuocere ancora il dolce se non è ben cotto.
Fate raffreddare il dolce e conservatelo in frigorifero fino al momento di servirlo.

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Foto in anteprima: Centro Astalli/Valentina Pompei